
Il Qatar non è più sottoposto a embargo. La decisione è stata presa nel corso del 41° vertice del Gulf Cooperation Council (GCC), tenutosi il 5 gennaio 2021 presso la località Al-Ula, in Arabia Saudita. Per la prima volta dall’introduzione dell’embargo, all’incontro ha potuto prendere parte anche Al-Thani, l'importante emiro del Qatar, che è stato calorosamente accolto in terra saudita da Mohammed bin Salman (MBS), principe ereditario di Riad e leader de facto del Paese, come testimonia il simbolico abbraccio tra i due. Artefice del riavvicinamento è stato lo stesso MBS, che ha riconosciuto il fondamentale ruolo mediatore di Kuwait, Oman e Stati Uniti e ha ringraziato i partecipanti per gli sforzi da essi profusi al fine di unire le energie e “far fronte alle sfide che ci circondano”, su tutte le “minacce poste dal regime iraniano”.
Al termine del summit, i sei Paesi partecipanti (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar) hanno firmato un accordo che ha posto ufficialmente fine all’embargo diplomatico, economico e logistico al quale il piccolo emirato era costretto dal giugno 2017, con le pesanti accuse di sostegno a organizzazioni ritenute “terroristiche” e di legami troppo stretti con Turchia e, soprattutto, Iran.
L’intesa raggiunta prevede che, in cambio della rimozione dell’embargo, il Qatar rinunci a chiedere qualsiasi tipo di risarcimento per l’isolamento di cui è stato vittima.
La riconciliazione, tuttavia, non va considerata alla stregua di una svolta definitiva negli equilibri del Medio Oriente, poiché le questioni che avevano causato l’introduzione dell’embargo, di fatto, non sono state affrontate al tavolo di Al-Ula.
La rottura dei rapporti tra il Qatar e il “Quartetto arabo” (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Egitto) risale al giugno 2017, quando a Doha furono mosse accuse legate agli stretti legami sviluppati con Turchia e Iran e al sostegno e finanziamento di gruppi considerati terroristici, Fratellanza Musulmana in primis. L’introduzione dell’embargo fu sancita nel mese di luglio, quando il Quartetto stilò un elenco contenente 13 richieste che il Qatar avrebbe dovuto soddisfare per risolvere la crisi. Le principali istanze riguardavano la recisione dei legami con “organizzazioni terroristiche” (Fratellanza Musulmana, Hamas, al-Qaeda, Hezbollah, Stato islamico), la chiusura dell’emittente governativa Al Jazeera, la cessazione dei legami con le opposizioni presenti negli altri Paesi del GCC, la rottura di ogni tipo di rapporto diplomatico con l’Iran, la chiusura di un’importante base militare turca in territorio qatarino e il riallineamento della propria politica estera a quella del GCC.
Doha, tuttavia, non ha mai considerato la possibilità di soddisfare le richieste delle altre monarchie del Golfo. La resistenza del Qatar è stata messa a dura prova dall’isolamento che ha dovuto fronteggiare, considerando soprattutto la chiusura dell’unico confine terrestre (con l’Arabia Saudita) e il blocco aereo e navale che ha impedito al piccolo emirato di ricevere rifornimenti tramite porti e aeroporti dei Paesi fautori del boicottaggio. Nonostante le fisiologiche conseguenze negative sull’economia, l’intervento del Fondo sovrano (il Qatar Investment Authority, che ha iniettato liquidità nelle banche del Paese) e il costante sostegno ricevuto da Turchia e Iran hanno consentito al Qatar di sopravvivere senza doversi piegare all’accettazione delle richieste formulate dal Quartetto nel 2017.
La divisione maggiore tra il Qatar e i Paesi del Quartetto ha radici profonde e una natura politico-religiosa. Si tratta di una questione tutta interna al mondo sunnita, che vede rigidamente contrapposte due fazioni: da una parte il Qatar e la Turchia, strettamente connesse alla Fratellanza Musulmana e agli altri movimenti islamici ad essa riconducibili; dall’altra Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita, i cui establishment percepiscono i movimenti islamico-politici come un pericolo per la stabilità dei loro regimi autoritari. Lo hanno dimostrato le Primavere arabe: si pensi al caso dell’Egitto, dove in occasione delle elezioni tenutesi nel periodo post-Mubarak il popolo ha votato a favore della Fratellanza Musulmana, che è riuscita a far eleggere alla Presidenza della Repubblica il suo leader, Muhammad Mursī, destituito dopo pochi mesi dall’esercito tramite un colpo di Stato sponsorizzato e apprezzato proprio da Riad e Abu Dhabi. Il sostegno di cui la Fratellanza ha dimostrato di godere in Egitto (ma non solo) ha indotto le leadership di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita ad avviare una dura repressione interna contro i movimenti dell’Islam politico (su tutti la Fratellanza Musulmana), che sono considerati alla stregua di vere e proprie “organizzazioni terroristiche” perché in grado di minare la solidità di quei regimi autoritari.
Chiarito cosa impedisce di parlare di “crisi risolta” nel Golfo, è il momento ora di riflettere sulle motivazioni che hanno indotto il Quartetto a interrompere l’embargo contro il Qatar.
Gli effetti economici derivanti dalla pandemia attualmente in corso sembrano aver giocato il ruolo principale nel cambio di rotta a guida saudita ed emiratino. Quasi tutte le economie del mondo, anche le più avanzate e diversificate, hanno subito ingenti danni economici negli ultimi dodici mesi. Il discorso è particolarmente valido per quei Paesi mediorientali che dipendono in larghissima parte dal mercato petrolifero, in un periodo in cui il prezzo delle materie energetiche ha conosciuto un grave crollo. La crisi in corso ha costretto gli attori del Golfo a riconsiderare alcuni impegni economici difficilmente sostenibili: costituiscono degli esempi tanto il progressivo disimpegno saudita ed emiratino dalla guerra in Yemen, quanto i lenti passi in avanti nella realizzazione del progetto NEOM. Per tentare di ovviare ai problemi sorti dalle scarse rendite energetiche, la cui redistribuzione ha finora garantito pace sociale e consenso politico, i governi delle monarchie del Golfo hanno scelto di stanziare miliardi di dollari a sostegno delle imprese private, in modo da tenere in vita la struttura economica.
Anche l’esito delle elezioni presidenziali americane ha indubbiamente influito sugli sforzi tesi a favorire la risoluzione della crisi del Golfo. In tal senso è stato fondamentale il lavoro del saudita MBS, intenzionato a migliorare la sua immagine agli occhi di Joe Biden. Il nuovo inquilino della Casa Bianca, infatti, si è più volte espresso in maniera fortemente critica nei confronti dell’operato dei Saud, soprattutto in merito all’uccisione di Khashoggi, alla guerra in Yemen (sul punto Biden ha recentemente dichiarato che gli USA non forniranno più alcun tipo di sostegno all’Arabia Saudita) e alle violazioni dei diritti umani notoriamente subite da oppositori e dissidenti della famiglia reale. L’astio tra Riad e i democratici americani, per la verità, risale al 2015, quando l’amministrazione Obama-Biden firmò il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare iraniano, che destò rabbia e timori tanto in terra saudita quanto in terra israeliana, per poi diventare carta straccia nel 2018 per volontà di Trump. Biden, tuttavia, sembra intenzionato a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano: la mossa dei Saud, dunque, si pone anche l’obiettivo di ricompattare il fronte arabo in vista della ripresa dei colloqui tra Washington e Teheran e di dare ai Paesi del Golfo maggiore voce in capitolo. Neanche la questione iraniana, tuttavia, può essere considerata come la principale ragione della fine dell’embargo contro il Qatar: l’Iran, infatti, sta affrontando un periodo di difficoltà economica (derivante dalle sanzioni a cui è sottoposto e dalla pandemia da Covid-19) e di indebolimento politico (complici le uccisioni di Qassem Suleimani, comandante delle brigate al-Qods delle guardie della Rivoluzione islamica e responsabile delle operazioni estere di Teheran, e di Mohsen Fakhrizadeh, figura chiave del programma nucleare iraniano).
In conclusione, senza voler negare l’importanza dell’elezione di Biden alla Casa Bianca e della volontà di unire i Paesi sunniti contro Teheran, a determinare l’accordo col Qatar sono stati soprattutto fattori di natura economica e sociale. La necessità di limitare gli effetti devastanti della crisi economica, che potrebbero minare la stabilità dei diversi establishment, ha convinto i Paesi del GCC dell’impossibilità di continuare a sostenere l’embargo contro il Qatar, pur restando irrisolte tutte le rilevanti questioni che ne hanno causato la genesi.
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