
Come semplice persona e cittadino di un Paese presente e impegnato in diverse organizzazioni internazionali (vedesi l’ONU, la NATO e l’Unione Europea), mi sono sempre domandato del perché l’Italia avesse delle ragioni per “mettere il naso” negli affari interni di altri Governi. Giustificabile e comprensibile l’interesse per le dinamiche interne al nostro continente, molto meno chiaro quello che ci ha spinto ad entrare a gamba tesa in questioni intestine a Paesi a chilometri di distanza da noi.
Oggi, invece, in qualità di ex studente di geopolitica, non posso permettermi di ignorare i sottili equilibri politici che tengono le fila del grande teatro mondiale nel quale alcuni Stati rivestono il ruolo di burattinai e altri di marionette.
Così, davanti alla vicenda di Patrick Zaki la mia prima e spontanea reazione è stata quella di pensare “a noi, che ci interessa?”. Una prima, a dir la verità anche flebile, spiegazione proveniva dal fatto che lo studente egiziano è iscritto all’Università di Bologna per frequentare il Master GEMMA, al momento dell’arresto in Egitto nello scorso febbraio.
Da qui mi sono chiesto se questo legame fosse davvero sufficiente.
No, non è possibile essere così superficiali. Non ci si può limitare alla prima parte di questa vicenda che merita di essere etichettata come causa internazionale.
Ormai, è noto ai più che Patrick Zaki è stato ingiustamente condotto nelle carceri egiziane nel febbraio 2020 quando il ragazzo era tornato nel suo Paese natale (originario di Mansoura, poco distante dal Cairo) per godere di un breve periodo di vacanze. Sceso dall’aereo, lo studente è stato prelevato da alcuni agenti dei servizi segreti e di lui non si sono più avute notizie per quasi ventisette ore. Questo è quanto fatto sapere dalla organizzazione non governativa EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights) con la quale Zaki collaborava.
In seguito, sono stati rivelati i capi d’accusa che ineriscono alla pubblicazione di notizie false, l’incitazione contro l’autorità pubblica, il supporto al rovesciamento dello stato egiziano, uso dei social network per minare l’ordine e la sicurezza pubblica e istigazione alla violenza e al terrorismo.
La versione della ONG, confermata anche dal legale del ragazzo (attraverso un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano), sostiene che Zaki “sia stato bendato e trasferito in una location sconosciuta a circa un’ora di auto dall’aeroporto” ed “è stato picchiato e torturato con l’elettricità”.
In data 6 dicembre 2020, il tribunale del Cairo ha respinto l’istanza per rilasciare Zaki e ha prolungato il fermo dello studente per altri 45 giorni (ricordando che secondo il diritto egiziano una misura cautelare può raggiungere un periodo massimo di due anni).
L’avvocato difensore ha nuovamente rilasciato delle dichiarazioni per sottolineare ulteriormente l’estraneità del suo assistito rispetto alla pubblicazione di post, tramite social, che inneggiavano al rovesciamento dell’ordine sociale e politico in Egitto.
Come se non bastasse, a questa ingiusta detenzione e ad un trattamento che, come ulteriormente ribadito da Amnesty International, viola qualsiasi forma di rispetto dei diritti umani, si aggiunge un palpabile ed evidente clima di terrore che pervade l’Egitto specie dopo le pressioni e le tensioni internazionali susseguitesi alla vicenda di Giulio Regeni.
La descrizione dell’intera vicenda giudiziaria, le modalità di estorcere informazioni e le minacce legali che ogni cittadino egiziano (senza distinzione di sesso, età o professione) rischia di vivere, non può e non deve lasciare indifferenti. Specie l’Italia che ha ancora un conto aperto con la giustizia egiziana.
Da queste informazioni, dalla descrizione delle modalità disumane dell’interrogatorio e dalle accuse mosse a Zaki comprendiamo la necessità di un intervento non italiano o europeo, ma mondiale.
È vero che ogni Paese ha la propria autonomia legislativa, ma non si può accettare una violazione così evidente dei diritti.
Non è necessario fare ciò che gli Americani hanno, purtroppo, già fatto in passato; non serve una missione di “esportazione della democrazia” al di là del fatto che rappresenti o meno un’etichetta falsa e ipocrita per celare un’aggressione militare verso un altro Paese.
Ciò che serve è un’azione di persuasione e di sensibilizzazione. Non è pensabile che l’Unione Europea, prima organizzazione internazionale ad avere accordi con l’Egitto, non faccia pressione per risolvere questa situazione. Guardando agli accordi di partenariato che questa ha siglato con Paesi in ogni angolo del Mondo, si nota come l’UE elargisce aiuti chiedendo in cambio il rispetto dei diritti umani come garanzia.
Allora perché non replicare lo stesso strumento di accordi con l’Egitto? Cosa ci impedisce di avviare una trattativa o un negoziato per aiutare un ragazzo, un cittadino libero a ricevere un giusto ed equo processo che lo porti davanti ad un giudice senza nessun segno di sevizie causate in carcere?
Ma tutto questo fervore, questa attenzione mediatica solo perché ha studiato in Italia? No. I motivi riguardano il “solo” fatto che non è giusto, “solo” perché poteva capitare a chiunque altro. Di casi come Giulio Regeni, per quanto difficilissimo da accettare, ce ne basta solo uno.
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