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Sentenza Floyd: non solo una vittoria

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Aggiornamento: 26 mag 2021


Il 25 maggio 2020 è stata la data nella quale si è registrata la morte di George Floyd mentre il poliziotto di Minneapolis, Derek Chauvin, eseguiva il suo arresto nella città del Minnesota.


Fin qui la cronaca di un’azione di polizia apparentemente normale, anche perché causata dalla chiamata di un negoziante che sospettava l’origine contraffatta della banconota che Floyd aveva usato per pagare il pacchetto di sigarette acquistato da poco. Invece, la successiva messa in stato di arresto ha provocato la sua morte, accertata successivamente in ospedale.


La causa? Il ginocchio messo da parte dell’agente sul collo che non ha permesso a Floyd di respirare nonostante i suoi continui, famosi e quanto mai inutili I can’t breath.


Purtroppo, la storia degli Stati Uniti non è nuova a situazioni del genere e le vittime, nella maggior parte dei casi, sono afro-americani. Quello che però, in questa circostanza specifica, non era stato messo in conto è stata la grande reazione e sensibilità sociale sorta dopo questo avvenimento.


Unanime condanna è provenuta da parte della gente comune che ha visto nei comportamenti di molte persone famose dello sport (dall’NBA al calcio, passando per il football) prendere delle decisioni forti. Alcune partite sono state rinviate perché giocatori afro-americani non hanno voluto giocare e, solo dopo lunghe trattative, hanno ripreso le loro attività agonistiche scandendo, però, il loro ingresso in campo con il classico gesto commemorativo, inginocchiandosi.


A questa iniziativa, si è accompagnata una serie di proteste feroci e incredibili per tutti gli Stati Uniti confluite nel movimento “Black Lives Matter” che, con le azioni di alcune frange tra i suoi membri, ha attaccato e buttato giù diversi monumenti e statue di eroi americani che hanno costruito la loro fama storica a danno dell’etnia afro-americana e delle altre minoranze presenti nel suolo americano.


Questi episodi hanno avuto, come si evince da questo breve riassunto, una cassa di risonanza incredibile e dotata di un’eco talmente profonda che ha chiamato a raccolta milioni di persone anche di altri continenti e ha confermato che questo non era e non poteva essere l’ennesimo omicidio che cadeva nell’oblio della coscienza di un Paese tanto attento alla sua potenza in politica estera e così incredibilmente fragile nella gestione del proprio tessuto sociale.


Un altro segnale importante è arrivato proprio dal corpo di polizia americano. Per la prima volta, da quando si sono verificate disgrazie di questo genere, nessun agente ha difeso il proprio collega, ancor prima della sentenza o dell’inizio del processo. Il corpo di polizia americano si è finalmente messo una mano sulla coscienza? Forse, perché non sarebbe razionalmente ed emotivamente corretto affermare che le tensioni e la pressione mondiali non abbiano inciso sull’adozione di questa linea di condotta.


In sede processuale, è stata registrata la condanna di Chauvin a 40 anni di detenzione. Una pena forte, decisa che è stata accolta con un boato di gioia e di festa da parte del mondo civile che si aspettava e voleva questo verdetto. Tutto giusto, insomma. Ma una domanda è legittima porsela? I giudici e la giuria sono parte del mondo e in qualità di cittadini portano con loro la carica emotiva e la responsabilità derivanti dall’appartenere alla società americana. L’accertamento dei fatti e la scelta conseguente della pena hanno davvero riflettuto solamente la volontà di lanciare un messaggio alle istituzioni e al Governo americano? Quanto ha influito il fardello sociale, opinionistico ed emotivo intorno all’accaduto?


Si intenda, l’accertamento della responsabilità era un atto dovuto, assolutamente.


Ma si rifletta su una cosa. Quella adottata a Minneapolis il 20 aprile 2021 non è soltanto una vittoria o non è soltanto la vittoria. Certo, è un successo. Prima di tutto per i familiari di Floyd che ottengono giustizia per la scomparsa del loro caro ed è un trionfo per la società americana perché c’è la conferma dello stato di diritto e di una giustizia che funziona nel suo lavoro garantista e non si fa ingolfare dal colore della pelle, dalla condizione sociale o dal mestiere di una vittima o di un imputato. Il tutto, nonostante delle statistiche, come quelle diffuse dal mappingpoliceviolence, che hanno dimostrato che gli afro-americani sono esposti tre volte in più rispetto ai bianchi al rischio di poter essere uccisi per mano della polizia che, per queste condotte, non subisce quasi mai condanne o accuse penali.


Però, si provi ad andare oltre. E se questa sentenza fosse un punto di partenza? Perché il vero obiettivo americano non può essere una rivoluzione culturale?


Dopo il caso Floyd, il mondo politico degli States (repubblicani e democratici, senza alcuna distinzione) ha finalmente e definitivamente compreso il disagio sociale quotidiano patito da alcune persone a causa di un razzismo grave e sempre più dilaniante.


Oggi, un primo passo può effettivamente esser rappresentato dalla riforma della polizia che il Presidente Biden ha affermato di voler portar avanti al Congresso. Il tutto però, nonostante il disegno di legge denominato “George Floyd Justice in Policing Act”, non ha ancora riscontrato il parere favorevole dell’assemblea.


Bisogna lavorare ancora molto per raggiungere la tanto agognata, ma ancora distante equità sociale. Cambiare la polizia senza cambiare la società, è un azzardo o effettivamente il primo passo?


Prima ancora dei difensori della legge, sarebbe bello se si riuscisse ad avvicinare i cittadini comuni verso un modello di convivenza pacifico e di mutuo rispetto perché sono loro i veri protagonisti della vita associata di ogni giorno. Si dovrebbe avere il coraggio di ristrutturare radicalmente il concetto di melting pot e di aprirsi al multiculturalismo, senza però cadere negli stessi errori europei.

 

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