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Rilancio europeo: solidarietà e Recovery Fund

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Il rapido arrivo e la nefasta diffusione del virus Covid-19 nell’intero continente europeo ha radicalmente cambiato le vite di tutti noi nell’arco di pochissimo tempo.


In qualità di persone, abbiamo visto i nostri quotidiani ritmi e abitudini di vita rallentati e limitati mentre, come cittadini, abbiamo assistito alla limitazione dei diritti (anche quelli più basilari) in nome di un bene individuale che, allo stesso tempo, rappresentava un valore comune ovvero l’incolumità fisica.


Sentir parlare, per la prima volta, di lockdown e vivere sulla propria pelle, specie per le giovani generazioni, restrizioni come il coprifuoco, ha comportato dei sacrifici e delle difficoltà personali che si sono riflettute, come naturale conseguenza, anche sui nostri Paesi.

Gli Stati membri dell’Unione Europea hanno e stanno continuando a vivere un drammatico periodo senza fine. Bilanci e calcoli sulla crescita dei rispettivi PIL completamente rivisti, proiezioni sull’occupazione non più conformi rispetto al febbraio 2020 e la crescita, tanto drammatica quanto rapida, di povertà in molte frange della popolazione.


Davanti ad un tale scenario, i Governi nazionali hanno chiesto e stanno facendo dei sacrifici ma non basta. Davanti ad una situazione del genere, complicata, imprevista e imprevedibile (al di là dell’incredibile lungimiranza di uno come Bill Gates) sia nei tempi che nei modi, è necessario fare affidamento a delle forze e a delle risorse che prescindono dai confini nazionali. La prima e unica grande soluzione è e deve essere proprio l’Unione Europea.


Ricordiamo quanto affermato in passato da Jean Monnet che sottolineava come l’Europa fosse stata forgiata dalla crisi. Pertanto, non c’è migliore ombrello per riparare le teste di noi poveri cittadini comunitari in sofferenza data l’esperienza dell’Unione.


Quanto affermato dovrebbe essere una realtà tangibile e visibile da accordi, trattati e/o convenzioni. Ma il vero problema è che le cose non stanno veramente così. Nonostante la comunità europea conosca e abbia già assimilato, da diversi anni, il principio di solidarietà, sia dal punto di vista contenutistico che da quello applicativo, non sempre questo ha avuto piena applicazione.


La solidarietà vede il suo primo passo nel lontano 1941. Già il ‘Manifesto di Ventotene’ sottolineava la necessità di appellarsi a questo valore come comune sentimento per favorire la fratellanza e l’unione di tutti i popoli europei.


Il principio ha anche accompagnato la nascita della CECA e tutte le varie tappe del processo comunitario che hanno portato, successivamente, alla formazione della CEE (tramite gli accordi di Roma del 1957), quella dell’Unione Europea attraverso il trattato di Maastricht del 1992 ed è stata presente anche nella redazione del trattato di Lisbona del 2007 che rappresenta la costituzione dell’Unione stessa.


La verità giuridica, però, ci racconta di un principio che non ha dei contorni ben definiti e troppo fumosi. Questo ha trovato conferma in alcuni casi di interesse europeo dove l’UE non ha agito in modo coerente.


Perché, nell’arco di pochi anni di differenza, la sostenibilità si è mostrata un mezzo di estrema importanza e utilità come quando, dal 2009 al 2015, l’Unione si è adoperata per salvare e aiutare economicamente la Grecia durante la sua gravissima crisi finanziaria. Ma, specie noi in quanto Italiani, non possiamo non citare il caso delle immigrazioni che hanno ingolfato i sistemi di ospitalità e accoglienza degli stranieri. Davanti a questo fenomeno sociale, nonostante la presenza di ben tre convenzioni (Dublino I, II e III), l’UE si è mal posta nel regolamentare tale problema, creando delle disparità oggettive e socio-economiche tra i Paesi membri.


E allora, per il Covid-19, l’UE come si è comportata per reagire alle numerose difficoltà di cui sopra e quali soluzioni ha trovato per una risoluzione tempestiva, efficace e soprattutto eguale per tutti gli Stati europei?


Le premesse per vincere questa crisi non sono state per niente positive. Le assemblee comunitarie hanno visto il sorgere di tre diverse fazioni: la prima costituita dal duo Germania-Francia che spingeva affinché ci fossero dei fondi numericamente idonei per aiutare tutti i Paesi dell’Unione a dare un forte impulso alla loro economia attraverso un sistema di erogazione di fondi prevedendo più sovvenzioni che prestiti (posizione ampiamente condivisa anche dall’Italia). La seconda era formata dai cosiddetti “Paesi frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) che, caratterizzati da economie floride e rispettose degli obblighi di bilancio imposti dall’Unione Europea, chiedevano che i fondi fossero erogati consegnando una quota maggiore sotto forma di prestiti e non di sovvenzioni (obbligando, in questo modo, i Paesi beneficiari a restituire buona parte degli stessi). Il terzo e ultimo schieramento era quello costituito dai Paesi dell’area Visegrad. Il blocco comprendente Ungheria, Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca ha avanzato delle posizioni euroscettiche perché, come dimostrato dalle parole di Viktor Orban, c’è l’idea che questi aiuti vadano ad aiutare i Paesi ricchi a discapito di quelli più poveri.


Il clima di estrema incertezza si è risolto attraverso l’assegnazione di 750 miliardi di euro di risorse divisibili in due parti. Cinquecento sono stati assegnati come prestiti e i restanti duecentocinquanta tramite finanziamenti a fondo perduto.


Davanti a questa decisione, sembra che a Bruxelles abbia nuovamente vinto il rigore con la solidarietà ancora una volta relegata in un angolo.


In seguito a nuovi incontri e a modifiche apportate, è finalmente arrivato il giorno dei Recovery Fund. Il Parlamento europeo, in sessione plenaria, ha approvato (con la 582 voti favorevoli su 691) il Dispositivo per la ripresa e la resilienza, serbatoio principale del Recovery Fund. Questo prevede, in maniera definitiva, fondi per 672,5 miliardi di euro da distribuire entro il 2027, di cui 312,5 miliardi di sussidi e 360 miliardi di prestiti a basso tasso di interesse: cioè la stragrande maggioranza dei 750 miliardi previsti per il cosiddetto Recovery Fund, il cui nome ufficiale è Next Generation EU.


Il testo votato è stato frutto di un compromesso trovato a metà dicembre fra Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea che comprendeva anche un accordo sul nuovo bilancio pluriennale dell’Unione Europea per il 2021-2027. Un altro punto derivante dalle recenti modifiche prevede che, per accedere a tale Dispositivo, ciascun Paese presenti un Piano nazionale di ripresa e resilienza entro il 30 aprile. Ogni piano sarà poi valutato dalla Commissione e approvato definitivamente dal Consiglio. Una volta esauriti questi passaggi il governo di ciascun paese otterrà un anticipo del 13 per cento della cifra totale che gli spetta.


In attesa della ratifica del Consiglio e della conseguente entrata in vigore del Dispositivo, l’Unione Europea ha finalmente compiuto quel passo che rappresenta il primo di un percorso comunque lungo e tortuoso che potrebbe portare alla solidarietà.


 

Fonti:

E. Traversa, G. Bizioli, Solidarity in the European Union in the Time of COVID-19: Paving the Way for a Genuine EU Tax? in “Intertax: International Tax Review”, Vol. 48, n. 8-9, p. 750

 
 
 

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