
Nella mattinata di ieri è finalmente giunta al termine la lunghissima odissea dei 18 pescatori (8 italiani, 6 tunisini, 2 filippini e 2 senegalesi) che il primo settembre erano a bordo dei pescherecci “Antartide” e “Medinea”, salpati da Mazara del Vallo per una battuta di pesca. Il viaggio di Conte e Di Maio a Bengasi ha sancito la conclusione della complessa trattativa che ha visto protagonisti l’AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) e gli uomini vicini al generale Khalifa Haftar, fin da subito considerato il responsabile del sequestro avvenuto a circa 40 miglia dalle coste della Cirenaica.
Sebbene le istituzioni italiane abbiano voluto immediatamente avvolgere la vicenda nel silenzio e nella riservatezza, nel dibattito pubblico si è comunque sviluppato un importante confronto intorno a tre fondamentali questioni:
Perché la trattativa è proceduta tanto lentamente? Quali ostacoli hanno incontrato l’AISE e i diplomatici della Farnesina nel corso del dialogo con la controparte libica?
Quali motivazioni hanno condotto Haftar a trattenere tanto a lungo 18 pescatori di Mazara del Vallo per poi liberarli in occasione della visita di Conte e Di Maio?
Perché l’Italia ha perseguito la via del dialogo senza ricorrere ad un intervento militare?
In merito al primo punto, la questione è stata complicata innanzitutto dal delicatissimo contesto libico. Il Paese, infatti, è teatro da quasi un decennio di un durissimo scontro nato per la presa del potere all’indomani della caduta di Gheddafi (2011). Sinteticamente, al Governo di Accordo Nazionale (GNA) - concretamente sostenuto dalla Turchia - si oppongono le non riconosciute istituzioni della Cirenaica, difese dalle truppe del generale Haftar (Libyan National Army, LNA) e forti di un sostegno significativo da parte di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia. L’Italia e tutta la comunità internazionale riconoscono legittimità esclusivamente al GNA, che è di base in Tripolitania. Tuttavia, Roma e l’Unione europea hanno visto gradualmente diminuire il loro peso nel Mediterraneo, a favore di altri attori statuali (in primis Russia e Turchia) che hanno colto l’occasione per aumentare in maniera notevole la propria influenza nell’area. Si tratta di un passo indietro particolarmente preoccupante per Roma, che dovrebbe invece giocare un ruolo rilevante nel processo di stabilizzazione della Libia, tanto per interessi legati al tema dell’approvvigionamento energetico quanto per la risoluzione del problema relativo alla gestione dei flussi migratori.
La complessità della trattativa, dunque, deriva dall’ormai debole peso dell’Italia nel contesto libico e dalla natura stessa del sequestratore, vale a dire un’autorità che la comunità internazionale non riconosce come tale, che osteggia il GNA sostenuto dall’Italia e che esercita un effettivo controllo del territorio in gran parte della Cirenaica, compresi alcuni giacimenti petroliferi di profondo interesse per Roma. A ciò si aggiunga che Haftar, come detto, gode del sostegno dell’Egitto, un interlocutore con il quale l’Italia vanta importanti relazioni economiche (l’ENI ha recentemente firmato una serie di accordi con le autorità del Cairo), sebbene la mancata collaborazione nella risoluzione del caso Regeni potrebbe determinare un deterioramento dei rapporti diplomatici tra i due Paesi.
Quanto ai fattori che hanno condotto Haftar a decidere un sequestro tanto duraturo per 18 marittimi, Roma si è vista più volte recapitare l’incredibile proposta dello scambio di prigionieri. In poche parole, il generale avrebbe rilasciato i 18 pescatori in cambio della scarcerazione di quattro giovani “calciatori” libici detenuti in Italia in quanto giudicati responsabili della morte in mare di 49 migranti nel 2015. Secondo il quotidiano panarabo 'Asharq Al-Awsat', noto per essere vicino ad Haftar, questi avrebbe acconsentito al rilascio dei marittimi dopo aver ottenuto da parte italiana la garanzia dell’estradizione in Cirenaica dei quattro libici di cui sopra. Il governo italiano, ad ogni modo, non svelerà i dettagli dell’accordo e le concessioni fatte ad Haftar.
Quel che appare certo è che il generale abbia argutamente utilizzato tale sequestro per ottenere da Roma un riconoscimento politico del quale finora non disponeva. Su questo, basti pensare come il sequestro dei due pescherecci da parte dell’LNA abbia avuto luogo all’indomani dell’incontro tra il Ministro Di Maio e Aguila Saleh (il Presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk), ora considerato da molti il nuovo uomo forte dell’Est della Libia, in un momento in cui l’appeal del generale Haftar non è più quello degli scorsi mesi, né in Cirenaica né presso i suoi noti sponsor internazionali, complice il fallimento dell’offensiva lanciata nell’aprile 2019 per la presa di Tripoli finalizzata alla caduta del GNA, salvato solo dal decisivo intervento turco. In tal senso, aver ricevuto la visita dello stesso Di Maio e del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, consente ad Haftar di rilegittimarsi e di presentarsi a tutti gli attori coinvolti come una personalità ancora fondamentale nel contesto libico.
Venendo all’ultimo punto, per tutta la durata della trattativa l’Italia è sempre stata determinata a perseguire la via della ricerca di un accordo attraverso il dialogo con la controparte libica, senza ricorrere a misure drastiche di carattere diplomatico, economico o militare.
Visti gli ostacoli incontrati nel corso della trattativa, in verità, alcuni hanno prospettato l’idea di un intervento forte e diretto finalizzato alla liberazione dei marittimi, come l’utilizzo delle forze speciali. Altri, invece, hanno fatto notare come alla Turchia (il cui peso nelle dinamiche libiche è divenuto immensamente maggiore di quanto non sia quella italiana) sia bastato mostrare i muscoli e alzare i toni per ottenere la liberazione del cargo “Mabouka” con tutto il suo equipaggio, dopo soli cinque giorni di sequestro. Senza neanche valutare la possibilità di recarsi personalmente in Cirenaica, Erdoğan ha ottenuto in tempi celeri il proprio obiettivo semplicemente tramite la minaccia di ritorsioni (anche di tipo militare) sulla Cirenaica e la conclusione di un accordo per uno scambio di prigionieri con il Cremlino, principale difensore e sponsor di Haftar. Contemporaneamente alla liberazione del “Mabouka”, infatti, il Viceministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov ha annunciato il rilascio di due suoi concittadini trattenuti dal GNA per accuse di spionaggio.
La ragione che ha indotto Conte a perseguire la linea del dialogo, che ha indubbiamente allungato i tempi del sequestro, va probabilmente ricercata in fattori di tipo strategico e opportunistico: l’Italia ha tutto l’interesse affinché la crisi libica venga risolta il prima possibile e, per questo, ha voluto evitare di causare uno strappo tanto duro con il generale, nella consapevolezza che questi ricoprirà un ruolo importante nel futuro del Paese nordafricano. In tal senso, un duro intervento di carattere militare sarebbe stato particolarmente controproducente in questo momento storico, mentre il “Comitato dei dieci” (l’organismo composto da 5 membri dell’esercito del GNA e 5 membri dell’LNA) sta conseguendo lenti progressi ai fini della stabilizzazione della Libia.
In definitiva, alla luce di queste considerazioni, l’Italia non può considerare la tanto agognata liberazione dei pescatori come un successo della propria politica. Al contrario, la vicenda restituisce il ritratto di un Paese che sembra aver definitivamente smesso di giocare un ruolo primario in un’area, la Libia, di sua tradizionale influenza e di suo vitale interesse. La visita a Bengasi da parte di due massimi esponenti del governo di Roma, inoltre, lascia in eredità ad Haftar un riconoscimento politico ed una legittimazione di cui il generale usufruirà per riacquisire il peso attualmente perduto nelle dinamiche libiche, con il rischio concreto di complicare il processo di stabilizzazione della Libia e cancellare i passi in avanti fino ad ora compiuti.
Comments