top of page

Le ali tarpate della democrazia

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Il Sud-Est asiatico è una delle regioni del Mondo maggiormente bersagliate da eventi storici nefasti. È stato (e continua ad esserlo) teatro di guerre, conflitti intestini che hanno continuamente rovesciato governi e, come se non bastasse, anche di persecuzioni etniche a danno delle numerose minoranze che vivono nella regione.


Nello specifico, ci si concentra sulla situazione di uno Stato in particolare, il Myanmar o Birmania, che nelle ultime ore sta vivendo una situazione sociale e politica davvero difficile e travagliata.


La storia di questo Paese è, purtroppo, facilmente sintetizzabile. Ex colonia britannica, il Myanmar ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948 con l’instaurazione di un governo democratico per poi subire l’instaurazione di una dittatura militare per quasi cinquanta anni che si è protratta, esattamente, dal 1962 fino al 2010. Da quell’anno, il regime birmano ha cambiato il suo modus operandi politico e ha varato un importante e graduale programma di riforme che ha portato alla formazione di un Governo civile e alla liberazione di molti prigionieri politici, tra i quali anche e soprattutto Aung San Suu Kyi.


Ed è proprio quest’ultima la figura centrale delle vicende politiche birmane. Inizialmente, San Suu Kyi si è presentata al suo Paese come una convinta attivista e leader non violenta del movimento per la democrazia negli anni del regime dittatoriale di Ne Win. In seguito, proprio per queste sue idee politiche, ha subito una condanna detentiva di 15 anni agli arresti domiciliari. Questo sacrificio personale e ideologico le valse il Premio Nobel per la pace nel 1991.


Dopo la sua liberazione, la Kyi ha iniziato il suo impegno politico libero ed effettivo. Dapprima, come leader dell’opposizione e, successivamente, dal 2010, come guida del suo Paese dopo aver vinto le prime e veramente libere elezioni dopo tanto, troppo tempo. Il tutto dopo che le fu negato, con una legge ad hoc del 2008, di diventare Premier del Paese.

Nonostante l’importanza di questi cambiamenti politici-istituzionali, la realtà sociale della Birmania resta ancora oggi molto difficile. Il mandato della Kyi è stato attraversato da critiche internazionali molto forti specie sul versante del rispetto dei diritti umani. È ormai risaputo che il Paese ospita un numero importante di Rohingya, etnia asiatica che ancora oggi continua a subire persecuzioni che, nel tempo, sono diventate un vero e proprio genocidio da parte dell’esercito di Rangoon.


Inizialmente, la leader birmana non si è espressa su questi fatti e, solo in un secondo momento, ha deciso di denunciare pubblicamente gli orrori dell’esercito. Molti hanno criticato e condannato questo iniziale silenzio e hanno anche proposto di revocarle il Nobel. La verità, però, è ben diversa. In uno Stato nel quale l’esercito era (e lo è ancora) molto forte, il silenzio della Kyi è stata una mossa strategica per preservare la fragile democrazia nel Paese.


Questo delicato equilibrio è proprio ciò che si è spezzato in questi ultimi giorni.


La Birmania ha subito un colpo di Stato nel giorno in cui il Parlamento avrebbe dovuto riunirsi, per la prima volta dopo le elezioni dello scorso novembre. Il risultato elettorale ha visto la netta e schiacciante vittoria dalla Lega nazionale per la democrazia (NLD), proprio il partito di San Suu Kyi, che ha ottenuto 368 seggi su 434. Dall’altra parte, il principale partito di opposizione, il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP), sostenuto dai militari, ha ottenuto solo 24 seggi.


Un risultato del genere era ovviamente troppo negativo per gli interessi dell’esercito. Infatti, la Costituzione birmana (approvata nel 2008 proprio da quest’ultimo) sancisce che il testo può essere modificato con il consenso del 75% del Parlamento. Questi numeri sono tranquillamente a disposizione della Lega nazionale per la democrazia che, in questo modo, potrebbe ridimensionare il potere dei militari.


Questo ha indotto il capo dell’esercito, Min Aung Hlaing, ad effettuare il golpe e ad arrestare San Suu Kyi e i principali leaders di maggioranza.


L’esercito, in questo Paese, detiene un forte potere costituzionalmente riconosciuto. Infatti, ha il controllo di alcuni importanti Ministeri, tra i quali quello della Sicurezza, della Difesa e degli Affari interni. Da qui, il controllo della polizia, dei servizi di intelligence e delle frontiere. Le forze militari hanno anche un notevole peso economico. La Myanmar Economic Holdings Limited (MEHL) e la Myanmar Economic Corporation (MEC) sono società controllate dagli alti gradi militari del paese e possiedono a loro volta centinaia di imprese che operano nei settori più diversi, dall’edilizia al turismo.


La comunità internazionale ha già espresso la sua condanna per questa situazione. Ma, purtroppo, una radice profonda dei mali birmani proviene proprio dalle politiche degli altri Stati. Sono molte le potenze mondiali che hanno forti interessi nella zona. La Cina vuole l'oppio e le miniere di giada, che in Asia valgono fino a venti volte più dell'oro; inoltre il sottosuolo birmano è ricco di petrolio, gas e minerali. Sono molte le multinazionali che intendono entrare a gamba tesa in Myanmar e, come se non bastasse, Qatar e Arabia Saudita hanno da tempo individuato nel Paese un’area da colonizzare anche in chiave religiosa.


Insomma, come sempre, si è sospesi tra interessi umanitari e materiali. Ora, non resta che seguire gli sviluppi di questa vicenda con la speranza che possa tornare a lavorare per il bene comune di molte persone un Governo legittimo e democraticamente eletto.


 

Fonti:

Fonte immagine:


 
 
 

Comments


Post: Blog2_Post

Modulo di iscrizione

Il tuo modulo è stato inviato!

  • Instagram
  • Facebook
  • LinkedIn
  • Twitter

©2020 di Prospettive Internazionali. Creato con Wix.com

bottom of page