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La Russia negli anni '90



Sebbene oggi molti conoscano la Russia di Vladimir Putin, ben pochi sanno cosa fu la Russia durante gli anni ‘90, quando le riforme e le politiche attuate misero in serio pericolo la stessa esistenza dello Stato russo. Questo periodo, soprannominato “selvaggio”, fu caratterizzato dalla perdita del valore del rublo, da un’inflazione che svuotó i risparmi delle persone, una disoccupazione che salì fino alle stelle, la moltiplicazione della criminalità, migrazioni all'estero di milioni di russi e un aumento dei conflitti etnici.


Quando divenne evidente la necessità di rinnovare i sistemi economici e politici, l’amministrazione di Boris Nikolaevič El’cin iniziò prima di tutto dall’economia. Durante il periodo sovietico, l’impresa aveva il compito di organizzare la produzione, mentre al resto ci pensava lo Stato. Con la caduta dell’Unione Sovietica, le imprese, abituate al sistema monopolistico, si trovarono da sole a confrontarsi in un mercato dominato dalla concorrenza.


Una delle opzioni proposte per la trasformazione economica della Russia fu quella dei “500 giorni”. Si trattava di attuare gradualmente le riforme economiche tenendo conto delle specificità del Paese, compresi i vantaggi di un’economia pianificata. Tuttavia, la leadership russa optò per una visione ultraliberale, escludendo lo Stato dai processi economici e lasciando che fosse il mercato ad autoregolarsi. Tutto nacque da un dibattito tra le idee keynesiane e quelle ultraliberali. Gli attuatori della riforma associarono il pensiero di Keynes a una sorta di ritorno al socialismo e all’epoca qualsiasi cosa riflettesse il passato andava evitato. Dunque, all’interno della società russa venne istituito qualcosa di sconosciuto, fino a quel momento: il capitalismo puro. Molte imprese, incapaci di resistere alla concorrenza, andarono in bancarotta dando vita ad una fase in cui la differenza tra poveri e ricchi divenne catastrofica. Ovviamente anche durante l’epoca sovietica c’era un’economia sommersa, ma negli anni ‘90 divenne esageratamente alta (secondo alcune stime fu quasi del 50%). Di conseguenza lo Stato, non ricevendo entrate dalle tasse, non riusciva ad attuare programmi sociali in diversi settori. Nel 1991, per salvare alcune aziende strategiche sull’orlo del fallimento, fu approvata la legge sulla privatizzazione delle imprese statali attraverso una politica di buoni. Ai cittadini russi vennero consegnati dei voucher che li resero azionisti di queste aziende. Tuttavia, la maggior parte della popolazione non sapeva come funzionassero i voucher e i futuri “oligarchi” approfittarono della loro ignoranza acquistando i buoni a poco prezzo. Una volta inserite queste aziende nel mercato internazionale, i proprietari di questi voucher ricavarono un profitto ingente. Gli oligarchi avevano una certa libertà nel fare quello che volevano, perché erano loro a finanziare il primo presidente russo, Boris Nikolaevič El’cin. La situazione del Paese era talmente tragica che, dal 1992, la Russia ricevette assistenza finanziaria sotto forma di prestiti per acquistare cibo dalle potenze occidentali. Nel 1998 il governo russo si ritirò dalla dura politica del liberalismo economico per superare la crisi e raggiungere la stabilità economica (evidente soprattutto con la gestione di Vladimir Putin).


Per quanto riguarda le riforme politiche, alla fine del 1993, queste portarono circa 150 parlamentari, contrari alle proposte di El’cin, a rinchiudersi dentro il parlamento russo. Il conflitto tra i sostenitori e gli oppositori del futuro leader russo nell’ottobre 1993 si è concluso con uno scontro armato a favore di El’cin. Il 12 dicembre 1993, con l’adozione della nuova Costituzione, furono sciolti il Congresso dei Deputati e il Soviet Supremo. La Russia divenne uno Stato presidenziale con un’enorme concentrazione di potere nelle mani del presidente e la Duma, composta da due camere ed eletta per quattro anni, divenne il più alto organo legislativo del paese.


Inoltre, negli anni ‘90, la Russia dovette attraversare un momento di estrema difficoltà a causa dell’indipendentismo ceceno (sostenuto dai Paesi occidentali). Nel 1991 è stata proclamata l’indipendenza della “Repubblica di Ichkeria” e nel giugno 1993, attraverso un colpo di stato, tutto il potere si concentrò nelle mani di Džochar Dudaev. Contro di lui si formò un’opposizione armata e nell’estate del 1994 scoppiò la guerra civile. La Russia, per sostenere gli unionisti, decise di inviare le proprie truppe iniziando di fatto la prima guerra cecena. Solo nel 1996 è stato raggiunto un accordo di armistizio passato alla storia come “Accordi di Chasavjurt”. Dal settembre 1999, in seguito ad alcuni attentati terroristici, in Cecenia è stata condotta una campagna antiterroristica, che causò lo scoppio della seconda guerra tra le due parti. Le truppe russe iniziarono massicci bombardamenti sulla città di Grozny e nei suoi dintorni. La città venne letteralmente rasa al suolo e le autorità russe riuscirono nuovamente a imporre il proprio controllo sulla regione, attualmente sotto l’amministrazione di Ramzan Kadyrov.


Indubbiamente, a seguito della caduta del colosso sovietico, alcuni errori sono stati commessi perché nessuno sapeva come comportarsi, ma altri erano dovuti al tentativo di imitare il modello occidentale senza considerare le specificità russe. I Paesi occidentali sostennero fortemente l’arrivo al potere di Boris Nikolaevič El’cin, perché pensarono che avrebbe guidato la società verso la democratizzazione in modo rapido e con pochi dolori, ma ciò non avvenne.


Se pur ancora molto debole su alcuni punti di vista, la Russia odierna sta dimostrando di essere del tutto divergente rispetto agli anni ’90. Attraverso l’accentramento del potere, il nazionalismo e la politica estera, Vladimir Putin ha messo al primo posto gli interessi di Mosca, cercando di consolidare ed estendere la sua influenza.

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