
Il 17 dicembre 2010, poco più di dieci anni fa, iniziava la Primavera Araba. Quel giorno, a Sidi Bouzid, piccola città nella Tunisia centrale, un giovane venditore ambulante, Mohammed Bouazizi, si diede fuoco per protestare contro i soprusi della polizia. Questo gesto portò i giovani a chiedere nelle piazze “Pane, libertà e dignità”.
L’intero Paese fu rapidamente coinvolto in proteste che causarono la caduta del Presidente Ben Ali e che si estesero a molte piazze arabe del Nord Africa e del Medio Oriente. Le contestazioni si susseguirono come un effetto domino, senza risparmiare nessuno: furono costretti alla fuga Hosni Mubarak in Egitto e Ali Abdullah Saleh in Yemen, mentre Gheddafi fu ucciso in Libia e anche Bashar al Assad in Siria sembrava in procinto di capitolare. Nel 2019 una “seconda rivoluzione” ha colpito altri Paesi: in Algeria Bouteflika ha gettato la spugna e il Sudan ha visto la fine di Omar al-Bahir; Libano e Iraq, invece, sono stati coinvolti da proteste contro la disoccupazione, la corruzione e l’accesso ai servizi essenziali.
A dieci anni dall’inizio delle proteste, appare complesso fare un bilancio sull’esito dei movimenti. Quanto alla Tunisia, la rivoluzione ha portato una libertà senza precedenti: il Paese, infatti, è considerato l’unico ad aver seguito la via della democratizzazione, ma non ha risposto alle altre rivendicazioni dei giovani. Il tasso di disoccupazione è ancora molto alto e colpisce soprattutto i giovani istruiti. Le guerre, la spinta islamista conseguente al ritorno dei regimi autoritari e l’incapacità di far emergere una vera cittadinanza moderna o una ridistribuzione più equa delle ricchezze hanno spazzato via le speranze dei giovani tunisini, che non si fidano più di alcun governo perché vedono una politica venduta alla Francia.
Anche in Egitto la repressione del regime del Presidente al-Sisi contro i Fratelli musulmani è oggi ancora più feroce di quella di Mubarak. In Siria, invece, Bashar al Assad ha salvato il suo trono, ma al prezzo della distruzione totale del suo Paese e di una guerra di cui la popolazione porterà i segni per generazioni e generazioni.
Probabilmente il frutto dei movimenti di protesta deve essere ancora raccolto. Quel che è sicuro è che, a dieci anni dalla Primavera Araba, è difficile trovare spunti di positività per il futuro prossimo della regione mediterranea e mediorientale tout court. Le forze delle proteste partite dal basso delle società sono state schiacciate dalle forze geopolitiche: Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Egitto sono diventati i nuovi portabandiera del Medio Oriente e hanno dato vita anche a rapporti geopolitici ed economici con Paesi come gli Stati Uniti, Israele e l’Unione europea.
Tutto questo sembra aver riportato gli Stati nordafricani e mediorientali al passato, ovvero ai regimi autoritari. Di certo è difficile affermare che la regione sia oggi più “libera” e “democratica”, ma non si può nemmeno dire che sia più “stabile”. Anzi, il quadro geopolitico risulta molto frammentato e denso di possibili atti rivoluzionari.
Sicuramente la Primavera araba non è stata fallimentare, ha portato più consapevolezza nelle mente delle nuove generazioni a cui spetta il vero cambiamento.
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