
Le parole di Mario Draghi sul ‘sofagate’, esploso per la mancata sedia riservata a Ursula Von der Leyen in occasione della recente visita ad Ankara con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, rischiano di generare frizioni tra Italia e Turchia, nonostante le buone relazioni economiche tra le parti. Il capo del governo italiano ha così risposto in conferenza stampa a una domanda sull’incidente diplomatico che ha costretto la presidente della Commissione europea a sedere su un divano laterale: “Erdoğan è un dittatore di cui si ha bisogno. Non condivido affatto il comportamento, mi dispiace moltissimo per l’umiliazione che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dovuto subire”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Çavuşoğlu, ha immediatamente convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara, Massimo Gaiani, al quale ha chiesto che “vengano immediatamente ritirate le dichiarazioni sgradevoli e fuori dai limiti” del premier Draghi. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha aspettato sei giorni, ma poi ha approfittato di un evento con i giovani per dare del "maleducato" a Mario Draghi e ricordargli che "non è stato eletto".
Da Palazzo Chigi, però, non sono ancora arrivate scuse di alcun genere verso Erdoğan e c’è fiducia che la frattura possa essere sanata tramite le armi della diplomazia. Nel frattempo le affermazioni di Draghi sono giunte fino a Bruxelles: il portavoce della Commissione europea, infatti, è intervenuto per smorzare i toni, ricordando che la Turchia è “un Paese che ha un parlamento eletto e un presidente eletto” e che, inoltre, “non spetta all’Unione europea qualificare un sistema o una persona”, sottolineando comunque la propria preoccupazione per alcune reali criticità del sistema turco, come la libertà di espressione, il rispetto dei diritti fondamentali e la situazione del sistema giudiziario.
In attesa di scuse formali che difficilmente Draghi pronuncerà, da parte turca si parla di un possibile boicottaggio delle aziende italiane. Secondo quanto ricostruito dalla stampa italiana, la prima vittima dello scontro diplomatico sarebbe Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale: il governo di Ankara avrebbe deciso, almeno momentaneamente, di porre in stato di stand-by la firma di un contratto per l’acquisizione di dieci elicotteri di addestramento AW169, costituenti solo la prima tranche di una fornitura del valore complessivo di 150 milioni, concordata a fine marzo dopo due anni di trattative. Repubblica, inoltre, ha riferito come “avvisi simili” siano stati “recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci sono almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40% di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche per la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale di Gebze, nella zona industriale di Istanbul”. Ansaldo Energia, tuttavia, ha dichiarato all’Adnkronos di non aver ricevuto alcuna comunicazione in questo senso, né dalle autorità di Ankara, né da quelle italiane.
L’interscambio commerciale tra Italia e Turchia, ad ogni modo, va ben oltre le attività svolte in territorio turco da due colossi come Leonardo e Ansaldo Energia. In base alle elaborazioni dell’Ice su base Istat, il valore dei rapporti industriali nel 2020 ha superato i 15 miliardi di euro, nonostante gli effetti economici derivanti dalla pandemia attualmente in corso, prima delle quale aveva quasi raggiunto i 18 miliardi.
L’Italia è il quinto partner commerciale della Turchia a livello mondiale e il secondo tra i Paesi europei (dietro la Germania): nel mercato turco sono attive migliaia di imprese italiane, compresi alcuni dei principali gruppi della nostra industria (a titolo esemplificativo, si pensi a Barilla, Ferrero, Benetton, Stellantis, Intesa Sanpaolo e Unicredit). Se numerose aziende hanno deciso di operare direttamente in territorio turco, attratti dalla presenza di una manodopera giovane, qualificata e costi contenuti, altrettante concepiscono il mercato di Ankara come un importante sbocco per i propri affari: i dati sull’export di prodotti made in Italy verso la Turchia sono ora in una fase di calo, ma nel 2017 avevano raggiunto un picco di oltre 10 miliardi di euro.
Al contempo, come fa notare Giovanni Da Pozzo, presidente di Promos Italia, si registra una costante crescita di investimenti turchi in Italia, in virtù della conseguente possibilità di accedere al ricco mercato europeo.
Questi elementi, che in tempo di profonde difficoltà economiche assumono ancora più rilevanza, inducono a ipotizzare che difficilmente le parole di Draghi possano compromettere in maniera seria le relazioni commerciali tra Italia e Turchia. Il vero terreno su cui Erdoğan vuole rispondere al premier italiano, in sostanza, è un altro. Si tratta della Libia, proprio il Paese scelto da Draghi per la sua prima missione all’estero per incontrare il nuovo primo ministro libico, Abdelhamid Dabaiba. Draghi vuole che l’Italia sia un player di primo livello nel futuro della Libia, tanto per interessi legati al tema dell’approvvigionamento energetico quanto per la risoluzione del problema relativo alla gestione dei flussi migratori. Al Presidente del Consiglio, in altre parole, non sfugge di certo la necessità di restituire all’Italia quel ruolo da protagonista che Roma ha giocato in Libia fino alla caduta di Gheddafi, quando il Paese è stato di fatto occupato e spartito tra russi e turchi: i primi nella regione della Cirenaica, i secondi nella regione della Tripolitania. E in questo senso si spiega la scelta di bollare Erdoğan come un “dittatore”. Alzando i toni con la Turchia, infatti, Draghi ha ottenuto un duplice scopo: da un lato ha evidenziato come Ankara sia oggi in Libia un competitor per un’Italia che vuole tornare protagonista in politica estera, soprattutto in scenari, come quello libico, che riguardano direttamente la sua sicurezza nazionale; dall’altro lato ha inviato a Biden un messaggio preciso, vale a dire che il principale interlocutore di Washington in Libia deve essere l’Italia di Draghi, non la Turchia del “dittatore”.
Erdoğan, però, non ha alcuna intenzione di mollare la presa sulla Libia, dove ha piantato le proprie tende sul finire del 2019, quando ha inviato propri uomini e mezzi a sostegno dell’allora Governo di Accordo Nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj, per impedire alle milizie del generale Khalifa Haftar di conquistare la capitale. Non appare ascrivibile al caso, dunque, che a distanza di una sola settimana dalla visita di Draghi a Tripoli il nuovo governo libico sia stato ospite di Erdoğan ad Ankara, in un incontro che al presidente turco è servito per consolidare la propria posizione sulla sponda sud del Mediterraneo ed evitare che il ritrovato attivismo italiano metta a rischio gli attuali rapporti di forza. L’incontro libico-turco ha confermato il memorandum d’intesa sui confini marittimi firmato nel 2019 con al-Serraj, in base al quale Ankara usufruisce delle risorse energetiche contese del Mediterraneo, danneggiando soprattutto Grecia e Cipro. Inoltre, Ankara si è impegnata a partecipare alle operazioni di ricostruzione della Libia (come la costruzione di quattro centrali elettriche) attraverso il lavoro di imprese turche. Le due parti hanno anche manifestato la volontà di incrementare il volume di scambio commerciale.
In conclusione, l’appellativo riservato da Draghi al leader turco difficilmente potrà compromettere le relazioni economiche tra i due Stati, vantaggiose per entrambi. Risulta comunque probabile che la tensione tra Italia e Turchia possa restare alta: Erdoğan, infatti, presa consapevolezza del ritrovato attivismo italiano nel Mediterraneo, proseguirà nei suoi tentativi di stabilizzazione della presenza turca nella regione. Quanto all’Italia, Draghi ha intrapreso una strada tortuosa (il gap da colmare con la Turchia è grande), ma è certo del sostegno dell’Unione europea e degli Stati Uniti, ai quali non può sfuggire la necessità di impedire ad Ankara di esercitare la propria influenza su una regione chiave come quella del Mediterraneo centrale.
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