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La penisola che c’è

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Da aprile 2020 la penisola di Hong Kong sta vivendo un periodo particolare, caratterizzato da ribellioni, proteste e insurrezioni contro la Cina e il suo Governo. Questi fenomeni, col tempo, si sono evoluti e si stanno caratterizzando per una maggiore organizzazione e sistematicità.


Dal punto di vista storico, questo territorio ha sempre avuto una natura politico-istituzionale molto particolare. Da ex colonia inglese, la Corona lasciò questo territorio alla Cina, ma Pechino dovette riconoscere la natura differente di questo territorio: Hong Kong avrebbe avuto un proprio ordinamento giuridico, legislativo e un diverso sistema economico.


La penisola, con questa diversa natura, rappresentò una speranza per il popolo della Cina continentale affinché Pechino seguisse il modello sociale e politico di Hong Kong, ma le intenzioni del partito comunista cinese guardarono verso ben altre direzioni.


In seguito a questi accordi, la Cina ha infiltrato il sistema economico di Hong Kong e ha cercato di potenziare la propria presenza anche nel suo sistema politico e giudiziario. L’ingombrante e stringente ombra di Pechino ha soffocato i cittadini di un territorio non abituato ad un certo genere di governance. Da qui, l’inizio della famigerata “Rivoluzione degli ombrelli”.


Siamo nel 2014 e Hong Kong inizia a richiedere maggiore autonomia e rivendica un maggiore peso politico nella scelta dei propri rappresentanti. Molte furono le proteste. Queste si caratterizzarono per la presenza degli ombrelli, usati per difendersi dallo spray al peperoncino e dai gas lacrimogeni usati dalla polizia per bloccare i manifestanti. Le rivolte furono soffocate da Pechino attraverso l’arresto di 955 attivisti.


Tra il 2015 e il 2017, Hong Kong è stata attraversata da altre manifestazioni che hanno mostrato anche più violenza rispetto alle precedenti dimostrazioni. Infatti, la nomina di Carrie Lam alla carica di governatore della penisola cinese, portò a nuovi attriti con Pechino per le posizioni troppo filocinesi di una candidata accusata di aver vinto irregolarmente (ha ottenuto il 66% delle preferenze delle preferenze, quando i sondaggi la davano di ventisei punti indietro rispetto al candidato più popolare).


Tornando al presente, le proteste e gli arresti ai quali assistiamo, soprattutto in questi giorni, hanno delle radici più profonde che trovano origine nella legge cinese sull’estradizione (nello specifico un emendamento). Questo, se approvato dal Parlamento locale, consentirebbe di processare nella Cina continentale cittadini di Hong Kong colpevoli di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio.


A giugno, i movimenti e i gruppi sociali che difendono i diritti umani hanno affermato che questa norma sarebbe stata un primo passo verso l’ingerenza cinese nel sistema giuridico di Hong Kong e avrebbe consentito alla Cina di avere un mezzo giuridico da usare arbitrariamente contro tutti gli oppositori del Governo.


Nonostante la Lam abbia promesso il blocco dell’emendamento a questa norma, le proteste non si sono più fermate e hanno continuato ad essere più insistenti. Gli scontri si sono fatti via via più violenti e organizzati. Se inizialmente a scendere nelle piazze e nelle strade erano giovani studenti, queste manifestazioni hanno iniziato a coinvolgere persone di tutte le età e professioni, senza alcuna differenza di ceto sociale.


In più, i manifestanti non si sono limitati a scendere in strada con gli ombrelli, ma si sono anche muniti di occhiali per proteggere gli occhi dagli spray urticanti, di elmetti contro i proiettili di gomma e gli sfollagente, di maschere e bandane per nascondere il viso alle telecamere di sorveglianza. Per lo stesso motivo negli ultimi giorni sono stati usati anche puntatori laser durante le manifestazioni.


I numerosi arresti che le autorità cinesi hanno eseguito nelle ultime settimane sono l’ennesima testimonianza della natura molto radicata di queste proteste. Nonostante l’arresto di Joshua Wong, uno dei maggiori attivisti, le rimostranze non si fermano.


L’operazione militare cinese che ha ulteriormente rafforzato lo stato di polizia che Hong Kong sta continuando a subire, è stata aspramente criticata da Stati Uniti e Unione Europea. Ciò che veramente preoccupa, dal punto di vista internazionale, è la sempre più crescente tendenza cinese a far tacere qualunque forma di sovversione in qualsiasi modo e a qualunque costo. Un continuo calpestare dei più elementari diritti umani che è diventata una prassi dalle parti di Pechino.


Ci sono molte verità che possiamo apprendere da questi eventi. Prima di tutto, Hong Kong vuole libertà e si è ben compreso che la penisola ora ha un unico e forte sentimento. Questi ultimi scontri, a differenza di quelli del 2014, non si sono catalizzati attorno ad un unico soggetto, ma sono state tenute sporadicamente da leader di piccoli gruppi, spesso coordinandosi su Telegram, Facebook e un sito simile a Reddit di nome LIHKG.


Inoltre, la popolazione di Hong Kong, adesso più che mai, è disposta a tutto pur di difendere i propri diritti e libertà. Il prezzo di questi fondamenti giuridici ha portato i manifestanti a bloccare il traffico stradale, aereo, ferroviario e metropolitano per diverse ore e ad organizzare uno sciopero generale, il primo in 50 anni.


La cosa più importante di questi avvenimenti, però, è ciò che si aggira nelle stanze del potere di Pechino. Perché la Cina sa che non può perdere la partita di Hong Kong. Questo porterebbe ad indebolirla in politica estera, specie agli occhi degli USA che al momento sono al massimo della loro crisi democratica, e in politica interna. Le concessioni a Hong Kong di oggi, potranno rappresentare il seme di future insurrezioni in realtà particolari come Taiwan e Macao.


Ma il punto dell’intera vicenda è: quanto è alto il prezzo, umano e civile, che Pechino è intenzionato a pagare pur di vincere?


 

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