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La crisi haitiana


Nella notte tra il 6 e il 7 luglio a Port-au-Prince, capitale dell’isola di Haiti, un commando armato è entrato nella residenza del Presidente in carica, Jovenel Moise, uccidendolo e ferendo gravemente sua moglie.


Quest’attacco ha portato alla nomina di un nuovo Presidente ad interim, Claude Joseph, che ha decretato lo stato di assedio per il Paese. Inoltre, la polizia e l’esercito dell’isola stanno lavorando per accertare le responsabilità dell’accaduto e sono state arrestate 28 persone tra le quali 26 Colombiani e 2 Americani.


Oggi, il Paese vive una situazione di gravissima violenza e incertezza, acuita ovviamente dalla mancanza di una linea politica stabile proprio perché sorta in un clima di così grande difficoltà.


L’agguato a Moise, però, non è un episodio di violenza isolato o un golpe politico estemporaneo. Questo avvenimento rappresenta il punto finale e più alto di un quadro socio-politico e istituzionale molto grave come quello haitiano.


Purtroppo, Haiti è sotto i riflettori da diversi anni per i gravi problemi economici che l’affliggono e che sono stati acuiti in modo vertiginoso negli anni. Tra calamità naturali che hanno afflitto l’isola (terremoti e violenti tifoni) e l’arrivo e la forte propagazione del Covid-19, Haiti e il suo Governo sono sprofondati in una grave crisi economica alla quale non hanno saputo reagire.


A questo quadro intensamente drammatico, si aggiunga anche un meccanismo istituzionale che non è affatto garantista, equo e rispettoso dei più basilari diritti umani. Infatti, la protesta politica ha delle radici lontane e risalgono al 2015 quando, a termine delle elezioni nazionali, l’ormai ex Presidente Moise è stato dichiarato vincitore. La riconferma è stata accompagnata da forti accuse di brogli che si sono aggiunte a quelle di corruzione e impunità sia dell’Esecutivo che del corpo nazionale di polizia. Nonostante tutto, nemmeno una seconda votazione, con Moise ancora vincitore, è servita come garanzia per gli Haitiani.


Se a queste considerazioni si aggiunge che oggi Haiti è uno degli Stati più poveri dell’area caraibica e del mondo, ecco spiegata la degenerazione delle rivolte che attanagliano il Paese da sei anni a questa parte.


La dura crisi di Haiti sembra non poter aver fine. Il Paese è in preda ad una serie di lacune sociali che indicano una grave e preoccupante assenza di un quadro politico e istituzionale.


Una diretta testimonianza deriva dal fatto che la violenza sull’isola ha raggiunto livelli che impediscono una normale convivenza sociale e il quotidiano svolgimento della vita dei cittadini. Interi quartieri della capitale sono in mano a bande armate che occupano il territorio e dettano la propria legge. La polizia, in molti casi, è connivente con le bande criminali e garantisce la quasi totale impunità.


L’OMI (organizzazione mondiale dell’immigrazione) parla di ben 17105 sfollati civili. Infatti, ci sono interi nuclei familiari costretti a lasciare le loro abitazioni nella zona metropolitana di Port-au-Prince perché totalmente in mano ai suddetti gruppi armati.


Anche i centri di alcune ONG e Medici senza Frontiere sono stati costretti a chiudere data la drammatica evoluzione delle lotte intestine per aggiudicarsi quartieri e aree urbane delle maggiori città.


Difficile immaginare un quadro politico e sociale per il futuro di questo Paese.


Haiti, negli anni, ha ricevuto aiuti internazionali anche grazie agli accordi di partenariato con l’Unione Europea, ma non sono stati sufficienti data la profondità di certi mali.


Sarebbe necessario avere il coraggio di riavviare e riscrivere la storia politica di questo Stato. Uno degli ultimi atti di Moise era la riforma costituzionale che prevedeva la possibilità di farsi rieleggere per un secondo mandato consecutivo.


Ciò che serve è una mediazione politica e sociale nella quale a prevalere siano i veri interessi di un Paese e delle sue future generazioni. L’egoismo e l’accentramento politico devono lasciare il passo all’individuazione e al perseguimento di un interesse collettivo.

 

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