
Dopo le sconfitte riportate da DAESH in Medio Oriente (nei territori siriani e iracheni), era forte la convinzione negli analisti e negli esperti che questa minaccia non fosse stata debellata completamente, anzi. Le prime testimonianze di indagini e ricerche di intelligence avevano confermato la presenza di alcuni appartenenti dell’organizzazione nel Nord Africa, in particolar modo in Libia, sfruttando il clima di incertezza politica del Paese che ha facilitato il loro ingresso e la loro anonima mimetizzazione tra la popolazione locale.
Nel tempo, l’avanzata nel continente africano è stata costante ed inesorabile. Un ulteriore segnale che ha manifestato questa grave situazione è arrivato qualche mese fa, sul finire del 2020, quando in Nigeria sono stati rinvenuti i cadaveri massacrati di decine di agricoltori nel nordest del Paese.
Seppur gli autori dell’attentato non siano direttamente membri di DAESH o di Al-Qaeda, la firma di quest’ultimi sembra giungere in modo indiretto. Infatti, in Africa, sono attivi dei gruppi che si ispirano a quelli medio-orientali e si stanno diffondendo a macchia d’olio per tutto il continente.
In particolare, questi gruppi seguirebbero il modus operandi delle principali organizzazioni riuscendo ad infiltrarsi in quei contesti socio-politici nei quali c’è un elevato livello di povertà ed una fortissima carenza di organizzazione ad autonomia politica tale da rendere le strutture politico-amministrative dei Paesi incapaci di resistere a queste minacce.
Le aree del continente che ne hanno risentito maggiormente sono quelle a maggioranza musulmana dell’Africa occidentale dove si sono combattute le guerre contro gli invasori europei nel periodo della decolonizzazione (Mauritania, Nigeria, Mali e Burkina Faso), nel nord del Mozambico dove l’Islam è radicato da anni, nel Congo, dove il jihadismo è inserito all’interno di dinamiche belliche intestine e, infine, in Somalia e nel Corno d’Africa dove Al-Shabaab è ormai presente da tempo.
La particolare capacità di questi gruppi è che sono in grado di agire senza che ci sia una struttura gerarchica e senza un centro di comando che li coordini, anche se sembra facilmente ipotizzabile che le organizzazioni riescano ad imparare l’una dall’altra.
Ritornando sul punto della diffusione geografica, i terroristi hanno approfittato delle debolezze di alcuni Governi, come quello somalo o nigeriano. In Mozambico, invece, i jihadisti sono riusciti ad imporsi in una zona che sta diventando una sorta di Eldorado del gas naturale, con un progetto pilota gestito dall’azienda francese Total. I contadini poveri, perfettamente consapevoli che non riceveranno alcun beneficio dallo sfruttamento di queste risorse e dalle ricchissime commissioni delle imprese europee, sono facili prede per i gruppi violenti che vantano anche un certo proselitismo.
Inoltre, è notizia recente che, in Nigeria, venticinque operatori umanitari sono stati costretti a rifugiarsi in un bunker di una base ONU dopo esser stati assediati dallo Stato islamico dell’Africa Occidentale (Iswap). La base è stata incendiata, ma, come riferito da una ONG operativa sul posto, fortunatamente non ci sono state vittime tra gli operatori.
Questo contesto evidenzia come e quanto la risposta al terrorismo non possa basarsi esclusivamente sul porre in sicurezza una determinata area, nemmeno fosse il Sahel, dove questa attività militare è più sviluppata. Qui, nonostante la presenza di soldati francesi nell’operazione Barkhane e di quelli di altri Paesi europei che operano per rafforzare gli eserciti africani, la situazione rimane molto complicata. Anni e anni di problemi interni irrisolti hanno facilitato fin troppo la destabilizzazione e lo spargimento di sangue.
Infatti, accanto alle operazioni militari, servirebbe anche una strategia politica pensata appositamente per l’Africa.
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