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Israele ha votato

Immagine del redattore: Valerio ManzoValerio Manzo

Il risultato finale delle elezioni tenutesi il 23 marzo in Israele per la nuova composizione della Knesset, il parlamento del Paese, conferma lo stallo politico che ha caratterizzato gli ultimi due anni, durante i quali i cittadini israeliani si sono recati alle urne per un totale di quattro volte. Né la coalizione guidata dal primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, né i suoi oppositori hanno ottenuto un numero di voti sufficiente a formare una maggioranza parlamentare che possa sostenere un nuovo governo. Il Presidente Reuven Rivlin aprirà le consultazioni per formare il nuovo esecutivo, ma è altamente probabile che possano passare settimane o addirittura mesi di intensi negoziati prima di una svolta; alcuni, addirittura, temono l’ipotesi di una quinta tornata elettorale. Ad ogni modo, Netanyahu si è già detto pronto a “parlare con tutti i deputati” in grado di aiutarlo a costruire un governo stabile, contando sul fatto che “una chiara maggioranza” degli eletti alla Knesset condivide la sua agenda politica.


Il Likud, partito del premier uscente Benyamin Netanyahu, si conferma prima forza politica del Paese con 30 seggi, ma la sua coalizione (formata da partiti di destra e religiosi) non va oltre i 52 deputati, senza riuscire a raggiungere la maggioranza assoluta di 61 seggi. Il variegato campo anti-Netanyahu, invece, vede in testa con 17 seggi il partito centrista laico Yesh Atid e, complessivamente, può contare su 57 parlamentari, comprendendo tra gli altri i voti di Nuova Speranza (la formazione di Gideon Saar, ex ministro di Netanyahu ma fuoriuscito dal Likud), Yisrael Beiteinu (il partito di riferimento degli ebrei russofoni) e Blu&Bianco (il partito di Gantz, ex rivale di Netanyahu e con lui protagonista dell'accordo che un anno fa aveva dato vita alla formazione di un governo di emergenza di unità nazionale).


Il partito di destra Yamina (7 seggi) e quello islamista arabo Ra'am (4) non si sono ancora impegnati per una parte o l'altra: le loro mosse saranno fondamentali nei tentativi dei due schieramenti di raggiungere i 61 seggi necessari per poter governare. Ra’am è una formazione politica che si è distaccata dalla Lista Araba Unita - fondata nel 2015 dai quattro maggiori partiti arabi del Paese, tra cui lo stesso Ra’am – e, almeno in misura teorica, ha tra i suoi principali obiettivi il ritorno ai confini israeliani prima della Guerra dei Sei Giorni (1967), la nascita di uno Stato di Palestina con Gerusalemme sua capitale e lo smantellamento di ogni insediamento israeliano. Il leader di Ra’am, Mansour Abbas, ha dichiarato di voler offrire i suoi seggi alla coalizione che garantirà vantaggi concreti alla sua comunità, senza escludere un’eventuale alleanza con il Likud, destando conseguentemente la rabbia degli altri tre partiti arabo-israeliani rimasti nella Lista Araba Unita, che vedono in Netanyahu il principale ostacolo alla realizzazione della propria agenda politica. Ad ogni modo, la possibilità dell’ingresso del partito islamista nella coalizione che sostiene la candidatura di Netanyahu è tutt’altro che scontata: il Sionismo Religioso (alleanza di movimenti che aderisce alla coalizione a favore di Netanyahu) ha già affermato che “non ci sarà un governo di destra con il sostegno di Abbas”. Quanto a Yamina, sostenitore degli insediamenti coloniali israeliani nella West Bank, i 7 seggi ottenuti alle elezioni lo rendono il più rilevante ago della bilancia nella partita per la nascita di un nuovo esecutivo. Qualora Yamina decidesse di affiancarsi al Likud e al resto della coalizione, per Netanyahu la strada verso la guida dell’esecutivo diverrebbe certamente più in discesa, sebbene ancora mancherebbero all’appello almeno altri due voti. "Farò solo ciò che è buono per lo Stato di Israele", ha dichiarato Bennett, leader del partito, senza svelare se entrerà nella coalizione guidata da Netanyahu.


Come ha sottolineato Yohanan Plesner, presidente dell’Israel Democracy Institute, la crisi politica che ha caratterizzato gli ultimi due anni d’Israele ha avuto come costante il “fattore Netanyahu”, ovvero “un primo ministro popolare che lotta per rimanere al potere mentre è sotto accusa”. Netanyahu, infatti, il premier che ha governato più a lungo nella storia del Paese, è coinvolto in un triplice processo giudiziario con accuse di frode, corruzione e abuso di ufficio. Il diretto interessato nega di essere responsabile di tali reati e accusa media e partiti di sinistra di avere come unico elemento aggregatore l’esigenza di scalzarlo dalla scena politica israeliana. Nonostante i problemi del suo leader con la giustizia, il Likud continua ad essere il partito più votato dall’elettorato israeliano: lo si deve senza dubbio al successo della campagna vaccinale. Netanyahu, politico navigato, ha presto compreso l’importanza delle vaccinazioni contro il coronavirus come eccezionale strumento di consenso elettorale, sebbene molti cittadini del Paese ritengano pessima la sua gestione della pandemia, caratterizzata da diversi lockdown totali che hanno fortemente danneggiato l’economia. Bibi, come è soprannominato il premier uscente, ha abilmente sfruttato la limitata dimensione geografica e demografica d’Israele (la popolazione è inferiore a quella della Lombardia) per ottenere in maniera celere le dosi di cui aveva bisogno per far ripartire l’economia, riaprendo ristoranti, cinema e stadi. Il giorno delle elezioni in Israele la metà della popolazione aveva già ottenuto una copertura vaccinale completa, grazie all’accordo sulla sperimentazione con l’americana Pfizer che, a fronte dell’accesso a una mole considerevole di dati utili per studiare l’efficacia e gli effetti avversi delle vaccinazioni, ha concesso un numero ingente di dosi. Un’invidiabile organizzazione e la qualità del sistema sanitario nazionale hanno fatto il resto.

Al successo elettorale ha anche contribuito la firma degli “Accordi Abramo” lo scorso settembre, grazie ai quali Israele ha ottenuto la normalizzazione delle proprie relazioni con i Paesi arabo-sunniti firmatari. Tale distensione dei rapporti consente a Israele di uscire dall’accerchiamento al quale è sottoposto fin dalla sua nascita e compatta in un unico fronte tutti i nemici regionali dell’Iran, un Paese fortemente temuto tanto per il sostegno prestato a gruppi paramilitari impegnati in vari territori (come Siria, Iraq, Libano e Gaza) e, ancora di più, per il suo presunto programma nucleare.


Quanto al popolo palestinese, proprio la normalizzazione delle relazioni tra i Paesi aderenti agli Accordi Abramo ha probabilmente posto la parola fine alla possibilità di realizzare la soluzione politica “due popoli due Stati”. La nascita di uno Stato palestinese, come già accaduto nelle più recenti tornate elettorali del Paese, è destinata a rimanere sostanzialmente al di fuori del dibattito pubblico, a prescindere da chi avrà la meglio tra le due coalizioni in lotta per la formazione del nuovo esecutivo israeliano. Il malcontento palestinese è emerso anche di recente, quando da Gaza è partito un razzo poi caduto nei pressi di Beersheva (parte sud di Israele), dove Netanyahu partecipava ad un appuntamento elettorale.

 
 
 

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