
L’aria natalizia ha influenzato anche Donald Trump, colui che oramai si appresta a diventare l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, malgrado i vari sforzi in ambito giudiziario per ribaltare l’esito delle elezioni (vedesi anche la recente decisione del giudice federale del Texas Jeremy Kernodle di respingere la causa intentata dal deputato repubblicano Louie Gohmert). Infatti, tra il 23 e il 24 dicembre il Presidente a stelle e strisce ha concesso la grazia ad un totale di 41 condannati. A far notizia è l’identità dei soggetti, molti dei quali sono considerati uomini vicini a Trump. Fra questi spiccano: Paul Slough, Evan Liberty, Dustin Heard e Nicholas Slatten, alias quattro contractors dell’agenzia privata di sicurezza Blackwater accusati di aver ucciso 14 civili in Afghanistan nel 2007; George Papadopoulos, Paul Manafort e Roger Stone, suoi consiglieri durante la campagna elettorale e tutti coinvolti nello scandalo Russiagate; Charles Kushner, a cui furono imputati nel 2014 ben 18 capi d’accusa inerenti i reati di evasione, corruzione di testimone e donazioni elettorali illegali.
Osservandola sul piano della politica interna, questa mossa di Trump risponde chiaramente alla sua strategia messa in piedi dall’inizio del suo mandato, volta ad eliminare tutte le personalità scomode ritenute appartenenti al cosiddetto deep state, ossia quell’insieme di lobby di vari importanti settori (economico, finanziario, militare, dell’intelligence, della big-tech, farmaceutico, eccetera) consolidatosi all’indomani dell’assassinio Kennedy e capace di tessere le fila della politica americana all’oscuro del potere visibile. Si dice che queste siano legate a un partito “trasversale”, tuttavia composto principalmente da democratici. Molte delle decisioni prese da Trump, tanto in politica interna quanto in quella estera, non sono state gradite a questi poteri occulti. Il tycoon, infatti, aveva promesso il rimpatrio della produzione industriale statunitense al fine di creare nuovi posti di lavoro per i cittadini statunitensi, a scapito degli interessi delle grandi industrie che avevano delocalizzato la propria produzione in aree del mondo dove la manodopera ha minor costo e che assumevano stranieri a basso prezzo. Inoltre, con la sua strategia di disimpegno dai teatri di guerra ritenuti ormai secondari visto l’emergere della potenza cinese, Trump ha posto le basi per porre fine alle cosiddette “unending wars” tanto care all’amministrazione americana e a quello stesso Joe Biden che nel 2001 sostenne la decisione del Presidente Bush di attaccare l’Afghanistan e che nel 2002, in qualità di presidente della Commissione esteri del Senato degli Stati Uniti, si espresse estremamente favorevole ad autorizzare il Presidente Bush ad intervenire in Iraq.
Molti sono stati gli oppositori alla politica estera di Trump. Egli, però, ha sapientemente mostrato il pugno duro con i rivali internazionali pur mantenendo sempre aperte possibilità di dialogo (vedesi quanto fatto con Corea del Nord, Cina, Russia e Iran). Questo lo ha portato a cacciare dalla Casa Bianca una lista lunghissima di persone che si sono dimostrate contrarie alle sue strategia in politica interna ed estera.
Biden, nel suo lungo articolo scritto per Foreign Affairs, ha dichiarato di voler riportare gli USA ad un ruolo di guida nel mondo dopo la politica di Trump, il quale – a detta del futuro presidente – “ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner degli USA” e “ha abdicato alla leadership americana”. Per questo, nel documento Biden promette di rafforzare il ruolo della NATO riportando il proprio Paese a guidare il mondo e ripristinando i rapporti con gli alleati statunitensi, i quali dovranno incrementare le proprie spese militari. Il candidato democratico auspica alla creazione di un fronte unito contro i propri rivali più temuti – Russia e Cina – contro cui ha più volte fatto intendere di adottare il pugno duro per far capire loro che le mire egemoniche hanno un limite, in quanto le regole del mondo sono dettate dagli Stati Uniti da settant’anni a questa parte.
Sul piano geopolitico è noto che in seguito ai fallimenti in Vietnam, Afghanistan e Iraq gli Stati Uniti stiano mettendo in atto un disperato tentativo di riconquistare quella credibilità internazionale di cui la potenza coloniale statunitense si nutre e che è stata scalfita. Ad un livello strategico la politica estera del tycoon coincide con quella del suo predecessore Obama, poiché anche Trump vuole salvaguardare l’egemonia degli USA nello scacchiere internazionale ed evitare l’emergere di egemoni regionali nelle aree strategiche di loro influenza (come la Cina nell’area Indo-Pacifica, la Russia nell’Eurasia, la Germania in Europa e l’Iran nel medio oriente). Già con Obama gli Stati Uniti decisero di disimpegnarsi dal teatro mediorientale al fine di focalizzare le proprie risorse verso l’emergere della minaccia cinese. Tuttavia, il presidente Trump ha innovato la tattica all’interno di questa strategia di disimpegno nel medio oriente: infatti, si potrebbe osservare che se Obama perseguì l’obiettivo cercando di rivoluzionare gli assetti politici dei singoli Paesi della regione (su tutto, le “primavere arabe” e la riapertura al dialogo con l’Iran) al fine di creare nella regione un equilibrio che si reggesse autonomamente agevolando così il disimpegno statunitense, Trump ha piuttosto utilizzato lo strumento della diplomazia per creare un equilibrio che si basasse su un’alleanza con quella parte del mondo musulmano che osteggiava l’Iran, ritenuto da Trump il pericolo numero uno per la stabilità del Medio Oriente (e non, si badi, per l’egemonia internazionale statunitense). Come è noto, questo suo impegno si è tradotto con il viaggio a Riyad del 2017 e con i celebri accordi di Abramo del settembre scorso.
Anche l’approccio adottato nei confronti della minaccia cinese si è dimostrato diverso, risultando in un tentativo di alleanza militare piuttosto che economica per fronteggiare la minaccia. Infatti, mentre Obama instaurò la Trans-Pacific Partnership, Trump inizialmente cercò (poi fallendo) di creare con lo storico rivale russo una collaborazione militare in chiave anticinese.
La notizia di apertura di quest’articolo, rappresenta uno dei vari tentativi dell’attuale presidente statunitense di lasciare una traccia indelebile del suo passaggio alla Casa Bianca che possa condizionare e rendere più complicate le future politiche dei suoi successori. Uno scomodo testamento che farà sentire la propria eco in futuro.
Fonti:
Fonte immagine:
Comments