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Il rapporto Europa-Islam

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì


C’era una volta l’Europa che noi tutti abbiamo visto nascere e crescere attraverso i numerosi e, spesso anche truculenti, avvenimenti storici che hanno caratterizzato il passato del “vecchio continente”.


La celeberrima pace di Westfalia del 1648 è stata la pietra miliare di un territorio che si è dotato di regni autonomamente governati, dotati di una sovranità indiscutibile da parte degli altri sovrani nazionali e dell’identificazione di una professione religiosa che accompagnava la vita privata del cittadino.


Questa realtà storico-politica così ben delineata, oggi, risulta a dir poco anacronistica.


La piena affermazione dell’Unione Europea (ben scandita dai numerosi passaggi iniziati con la fondazione della vecchia CEE) e l’entrata in vigore di due trattati in particolare (Schengen 1990 e Lisbona 2007) hanno ridisegnato e rivoluzionato i confini europei mostrando un continente “completamente nuovo”.


In seguito, la mancanza di confini rigidi, il fenomeno della globalizzazione e i crescenti flussi migratori (sia regolari che clandestini) hanno dato all’Europa un’immagine diversa, ovvero quella di un continente nel quale multiculturalismo ed eterogeneità sociale, etnica e religiosa ne fanno da padroni.


In questo panorama umano e politico così variegato, emerge una componente sociale e religiosa decisamente forte. Quella rappresentata dalla comunità islamica.


Tra il 2010 e il 2016, i report della Fondazione Farefuturo indicano che il 78% dei richiedenti asilo in Europa ha dichiarato di professare la religione islamica., mentre, tra i migranti regolari, il valore si attesta al 46%.


Con Germania e Italia ai primi due posti in qualità di Paesi maggiormente interessati all’arrivo di questi migranti, si evince dai dati che la popolazione musulmana, sempre nello stesso periodo di riferimento, è passata da 19, 5 a 28,5 milioni.


Partendo dalla freddezza ma importante logicità dei numeri, è fondamentale comprendere come l’Europa e l’Unione Europea (che non rappresentano sempre il medesimo soggetto) debbano approfondire e cambiare il dialogo con l’Islam. La necessità del cambiamento è dettata dall’aumento costante di individui praticanti la religione musulmana e dall’avanzare dei tempi che offrono sempre nuovi spunti e nuove sfide per costruire una società sicura nella quale è possibile convivere in modo armonioso.


Cosa significa veramente la parola convivere?


Per riuscire in questo non facile intento, bisogna tracciare un punto di incontro, un compromesso che non metta da parte l’esigenza di avere diritti e equità sociale per queste minoranze, ma, allo stesso tempo, non si può distruggere l’equilibrio socio-politico che caratterizza le istituzioni di uno Stato.


Modelli di convivenza, seppur diversi, derivano da Paesi a lunga tradizione multiculturale come Gran Bretagna e Francia.


Londra, anche grazie al suo passato coloniale, ha elaborato un modello di convivenza basato sull’integrazione. Il sistema legislativo inglese ha messo a disposizione delle comunità islamiche le Shari’a Courts e i tribunali arbitrali islamici che, seppur non in grado di emanare sentenze definitive che facciano legge tra le parti, possono esprimersi su questioni che riguardano individui di religione islamica.


Parigi, invece, dall’alto della sua tradizione rivoluzionaria che ha sancito i valori di fratellanza e uguaglianza tra uomini e cittadini ha costruito e regolato la sua eterogeneità sociale sull’assimilazione. Chiunque entri in Francia e desideri viverci deve imparare e osservare i valori e i principi della Repubblica.


Per quanto questa posizione possa risultare forte, recentemente la comunità islamica francese ha adottato un “Carta dei principi per l’Islam francese” e si nota la natura camaleontica dell’Islam ad adattarsi ai valori di un Paese ospitante che ha un retaggio storico, culturale e giuridico totalmente diverso rispetto quelli musulmani.


Per quanto riguarda l’Italia, nel 2017 ci sono stati dei colloqui che sono sfociati nel “Patto nazionale per un Islam italiano” che ha fissato alcune regole per la convivenza. Tra queste figurano il rispetto della laicità dello Stato, la legalità e la parità dei diritti tra uomo e donna, in un contesto caratterizzato dal pluralismo confessionale e culturale. Inoltre, nel pieno rispetto dei riti celebrativi islamici, il sermone deve essere tradotto o recitato direttamente in italiano.


I casi rappresentati da questi Paesi ci fanno capire che trovare un punto medio, un incontro tra i due sistemi è davvero possibile senza che ci sia nessuno stravolgimento delle regole e dei valori da nessuna parte. Perché la capacità di adattamento mostrata dall’Islam è parte integrante del DNA di questa religione.


Il recente referendum in Svizzera (del 7 marzo), promosso dal Comitato di Egerkingen, che vieta di poter indossare il burqa e il niqāb era davvero necessario? Si badi, non si parla di giusto. Chi scrive non è un cittadino svizzero e non vuole esprimere meri giudizi di giustizia, ma di necessità.


Secondo uno studio di Andreas Tunger-Zanetti dell’Università di Lucerna, sarebbero dalle 20 alle 30 le donne residenti in Svizzera che indossano abitualmente o occasionalmente il burqa o il niqab (più frequentemente quest’ultimo). A questo dato si deve sommare il numero delle turiste provenienti dai Paesi del Golfo. La somma è pari ad un numero esiguo che non spiega né giustifica il ricorso a uno strumento legislativo popolare per ragioni di sicurezza.


La Direttrice del Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia (DFGP), ha dichiarato che il referendum “non è un voto contro i musulmani” ma gli slogan più diffusi riportavano frasi come “Stop all’islam radicale” e “Stop all’estremismo” e i poster affissi per le strade rappresentavano per lo più donne coperte da un velo nero.


Quello mostrato in Svizzera non è un esempio di compromesso o tentativo di dialogo, bensì una scelta politica imposta da un partito. Al di là della sua colorazione politica e delle sue idee, accompagnare un voto sociale così difficile per un popolo senza tentare la strada della mediazione rappresenta una ferita profonda che rischia di corrompere l’equilibrio politico e giuridico di un intero Paese.


La strada della convivenza è un venirsi incontro dove le prese di posizione non hanno e non possono avere spazio. La mancanza di dialogo può rappresentare un errore non perché vogliamo essere politically correct (data la tendenza di oggi), ma perché vittime di questo atteggiamento ostile saremo noi Europei e la stabilità sociale e politica del nostro continente.

 

Fonti:

Charte des principes pour l’Islam de France, 17 janvier 2021

Patto nazionale per un Islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e ai principi dell’ordinamento statale, febbraio 2017


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