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Il Qatar e i diritti degli stranieriUn evento internazionale, di natura sportiva o diplomatica, acce



Un evento internazionale, di natura sportiva o diplomatica, accende inevitabilmente i riflettori su un determinato Paese che ospita suddetta manifestazione. Questo, di conseguenza, mette in evidenza tutti i pregi e i difetti del Governo nazionale, anche se con un velo di ipocrisia.


Possibile che non si possa essere coscienti di certi problemi con un apprezzabile anticipo?


Certo, in alcune circostanze non è possibile avere tante informazioni dato il carattere chiuso e ostile di un Governo; in altre occasioni, però, si evince che il comportamento migliore sia quello di girarsi dall’altra parte e far finta di niente. Perché c’è una diplomazia da salvare, perché ci sono degli introiti commerciali che non possono essere sacrificati “per così poco”.

Quest’ultima descrizione è la piena manifestazione di quanto accade con il Qatar.


Il Paese del Golfo, ospitante l’edizione dei Mondiali di calcio del 2022, viene attenzionato solo adesso (con connesso rischio di boicottaggio) per la deplorevole situazione relativa ai diritti dei lavoratori migranti che si trovano a Doha e dintorni.


Nello specifico, la situazione di questi soggetti è disciplinata attraverso un particolare sistema giuridico che risponde al nome di kafala (sponsorizzazione, patrocinio) che non interessa soltanto il diritto qatariota, ma anche quello degli altri Paesi del Consiglio del Golfo come Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti.


Per comprendere questo istituto al meglio, bisogna partire dall’aspetto linguistico. In termini etimologici, in arabo la parola “kafala” ha un duplice significato perché si riferisce a elementi di tradizione islamica tribale e legale. Da un lato, la parola significa “garantire” (daman) ed esprime il concetto di garanzia per conto di qualcuno quando si trattano affari economici; dall’altro, significa “prendersi cura di” (kafl) e indica il comportamento da adottare quando si interagisce con un soggetto non indipendente o autonomo.


Nonostante gli Stati del Golfo abbiano sviluppato e maturato dell’esperienze storico-sociali differenti, questo sistema ha al suo interno un nucleo giuridico funzionante identico alle differenti esperienze culturali. Infatti, la base dell’istituto vede la necessità, da parte di un lavoratore straniero, di avere un kafeel (sponsor) che gli permetta di varcare i confini del nuovo Paese. Così facendo, non è il Governo centrale a fornire al migrante uno status giuridico. Infatti, la competenza per regolarizzare le condizioni formali del migrante è delegata allo sponsor.


In questo caso, è perciò lo sponsor (che in genere è anche il datore di lavoro) ad assumere la completa responsabilità per tutte le questioni che riguardano i permessi di ingresso nel Paese di destinazione, il rinnovo dei permessi di soggiorno o dei visti di lavoro, la cessazione del rapporto lavorativo, il trasferimento a un nuovo datore di lavoro e i permessi di uscita dal Paese di destinazione.


Si verifica, in questo modo, una vera e propria privatizzazione della gestione del flusso migratorio in uno di questi Paesi e la situazione è brutale. Infatti, in un’area geografica che costituisce un’importante oasi di ricchezza (anche se non per tutti e allo stesso modo) e di opportunità di lavoro segue un continuo flusso migratorio con relativo assoggettamento nei confronti della volontà degli individui più ricchi e senza scrupoli.


Dalla loro parte, i lavoratori dipendono dal datore di lavoro che paga il loro salario e, sempre da questo, dipende anche e soprattutto l’approvazione del loro status di residente legale nel Paese. In questo contesto, emerge chiaramente il fatto che il rapporto tra datore di lavoro e dipendente è del tutto sbilanciato a vantaggio del primo.


Inoltre, in virtù della loro posizione dominante, i datori di lavoro possono costringere i loro dipendenti all’obbedienza facendo ricorso a pratiche illegali e deleterie quali la confisca del passaporto, l’imposizione del pagamento delle tasse di collocamento, la sospensione del regolare pagamento dello stipendio e la minaccia di denunciare arbitrariamente i migranti alle autorità statali per mancata osservanza dei loro doveri.


Ad oggi, c’è un percorso di riforme legislative che cerca di rendere maggiormente democratico ed equo questo sistema. Le autorità del Qatar hanno in primo luogo abolito la clausola detta “No Objection Certificate” (Noc), che costringeva i dipendenti a ottenere il consenso dei loro datori di lavoro per cambiare occupazione e ha introdotto, in un secondo momento, un salario minimo per tutti i tipi di lavoratori, indipendentemente dal settore di attività e dalla nazionalità.


Questa decisione non è stata soltanto un’iniziativa qatariota, bensì regionale e questo conferma l’intenzione delle monarchie regnanti nell’area di voler effettivamente cambiare qualcosa e agevolare la situazione dei lavoratori. Magari, l’iniziativa è arrivata mediante una forte spinta internazionale o come volontà di fermare e placare le numerose e pacifiche proteste delle categorie nelle maggiori città del Golfo.


Al di là delle vere motivazioni, che non devono affatto sorprenderci, ci si augura che queste siano solamente le prime iniziative che portino ad una diffusa eguaglianza in ogni aspetto di società per troppo tempo chiuse in sé stesse e in sistemi di caste che hanno avvantaggiato pochi a discapito di molti.

 

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