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Il difficile dialogo tra Washington e Pechino

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Nella fredda e lontana Anchorage, una delle principali città dello Stato dell’Alaska, si è tenuto un importante e difficile incontro diplomatico tra gli Stati Uniti e la Cina, il primo da quando la Casa Bianca ha visto l’insediamento dell’amministrazione Biden.


Il clima geopolitico che ha fatto da sfondo a questo primo e importante incontro non era dei migliori. Infatti, pochi giorni prima, l’Unione Europea, storico alleato americano, aveva inflitto delle sanzioni economiche a Pechino per l’inasprimento delle misure legislative nella regione dello Xinjiang e il genocidio nei confronti degli Uiguri.


All’incontro erano presenti, per gli USA, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan e il Segretario di Stato Anthony Blinken; per la Cina, invece, il Ministro degli esteri Wang Yi e il Direttore della Commissione centrale per gli affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese Yang Jiechi.


Il meeting si è caratterizzato per delle incomprensioni profonde tra le due parti. I Cinesi, infatti, hanno presentato questo incontro come un dialogo strategico bilaterale con l’obiettivo di normalizzare i rapporti tra i due Paesi dopo anni di crescente e pericolosa tensione sotto l’amministrazione Trump. Gli Americani, dal canto loro, hanno mostrato maggiore cautela definendo l’incontro come una contingenza dettata da alcuni recenti episodi che hanno suggerito un chiarimento su due punti in particolare: politiche di sicurezza e diritti umani.


Nonostante queste defezioni, un incontro tra le due principali potenze geopolitiche mondiali rappresenta un importante primo passo verso una prova di distensione diplomatica. Le speranze di molti analisti ed esperti internazionali, però, erano quelle vi vedere la partecipazione di Liu He, Vice-Premier incaricato degli affari economici della Repubblica popolare, noto per la firma al famigerato “Accordo di fase uno” con Trump nel gennaio 2020. La sua partecipazione, infatti, avrebbe indicato la possibilità di una rinegoziazione del sistema dei dazi attualmente in vigore in entrambi i Paesi e un approccio più pragmatico alle relazioni bilaterali.


Così non è stato e il risultato è stato un reciproco e pesante scambio di accuse tra le due delegazioni.


Nello specifico, la delegazione americana ha denunciato la repressione a Hong Kong (acuita dopo l’approvazione della nuova legge elettorale imposta all’ex colonia britannica), il genocidio degli Uiguri, la crescente coercizione economica anche attraverso il lancio della nuova moneta elettronica di Stato, i cyberattacchi e le perpetrate minacce a Taiwan, aumentate dopo l’incontro diplomatico tra Taipei e Washington.


Non si è fatta attendere la risposta di Pechino che ha avanzato delle accuse forti e perentorie. La delegazione cinese ha accusato Washington di avere una mentalità da guerra fredda, di abbracciare pratiche egemoniche e di incitare altri Paesi e organizzazioni internazionali ad aggredire la Cina soprattutto tramite il meccanismo delle sanzioni. Non solo. La delegazione cinese ha affermato che la democrazia americana ormai è screditata anche e soprattutto agli occhi di molti Americani, erosa da razzismo e “massacri” di Afroamericani. La convinzione di queste dichiarazioni proviene da la convinzione di Yang Jiechi che ha affermato che né gli Stati Uniti né il mondo occidentale rappresentano l'opinione pubblica internazionale.


Con queste premesse, stupisce e non poco che i successivi incontri (spalmati in due giorni) si siano tenuti in un clima più disteso come affermato dalla delegazione cinese che ha ammesso la natura seria, franca e costruttiva dell’incontro.


Nonostante la ritrovata pace, permane l’idea di un forte braccio di ferro tra le due parti.


La conferma arriva dal persistente disaccordo sui punti centrali del meeting. La delegazione americana ha affermato di essere giunta in Alaska senza alcuna illusione e che farà ritorno alla casa Bianca allo stesso modo. Quella cinese ha confermato l’empasse su determinati punti sui quali il Paese non è assolutamente disposto a indietreggiare e a rivedere le proprie posizioni per la volontà di salvaguardare la sovranità nazionale.


Anche se c’è stata una comune volontà su determinati argomenti (come clima e ambiente), le posizioni dei due Stati sono veramente lontane. Bisognerà capire se e quanto il pragmatismo diplomatico continuerà ad essere attuato in un clima sempre più freddo e teso.


Anche perché, a queste grandi difficoltà si sono aggiunte delle dure provocazioni cinesi. I nuovi rapporti con l’Iran, l’accordo di acquistare il petrolio da Teheran e l’invito di Pechino al Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov potrebbero far precipitare in maniera ancor più veloce una situazione già in precario equilibrio.

 

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