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Il “colonialismo” cinese


Negli ultimi anni, abbiamo assistito a particolari e importanti strategie politiche ed economiche da parte delle maggiori potenze geopolitiche mondiali con l’obiettivo, mai dichiarato pubblicamente ma fin troppo evidente, di ampliare le proprie sfere di influenza nel mondo.


Il retaggio storico di fenomeni come il colonialismo e l’imperialismo che ha contraddistinto i principali attori politici tra Stati Uniti e Paesi europei, ha alimentato, nel tempo, l’espansione degli interessi commerciali e politici di questi Stati, ma non solo.


Infatti, nonostante l’assenza di una vera e propria ambizione coloniale così come l’abbiamo conosciuta dal XV secolo in poi, la Cina si è ormai dotata da tempo di una politica estera che le ha permesso di entrare dalla porta principale di tantissimi Paesi africani e di avviare un’immensa e vincente campagna colonizzatrice attraverso delle accurate e mirate operazioni economiche e finanziarie.


A tal proposito, sono moltissimi gli investimenti che Pechino ha avviato in diversi Stati del continente africano e in numerosi settori economici (da quello petrolifero a quello infrastrutturale, fino all’edilizia) e questa situazione è la diretta conseguenza della politica nazionale che la Cina ha avviato attraverso il programma “Go Out”, definito negli anni ’90, che si proponeva di portare i floridi guadagni interni nel mondo sottoforma di investimenti strategici e oculati con un solo obiettivo: divenire la potenza geopolitica mondiale numero uno.


Stando ai dati del China Africa Research, i flussi di denaro dalla Cina all’Africa sono aumentati vistosamente a tal punto che nel 2003 si attestavano a “soli” 75 milioni di dollari, mentre, nel 2018, hanno raggiunto quota 5,4 miliardi.


L’imperversare della pandemia non ha fatto altro che aumentare ulteriormente la forza del canale sino-africano attraverso la pratica di quella che ormai è conosciuta con l’espressione di “diplomazia delle mascherine”. Infatti, l’invio in Africa di mascherine e altri strumenti sanitari utili a contenere il contagio, hanno dimostrato ancora una volta quanto questo legame politico sia molto consolidato.


Paesi come la Tanzania, il Mozambico, il Sudan, l’Angola, la Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo hanno potuto e voluto beneficiare di queste risorse economiche per la costruzione di opere fondamentali: autostrade, linee ferroviarie, aeroporti, scuole e ospedali. Il tutto, per quanto sia di grande importanza per dei territori ancora economicamente e politicamente fragili, ha comportato un preciso ed esoso costo.


Tecnicamente, si parla di un modello di business “win-win”, dove a vincere sono entrambe le parti coinvolte. Infatti, come dimostrato dai dati sull’import e sull’export cinesi, Pechino ha visto il ricevimento di un corrispettivo economico importante e di pregevole fattura per i suoi interessi industriali calcolabili in materie prime fondamentali come nichel, zinco, diamanti e petrolio.


Se, all’inizio di questo ricco progetto imprenditoriale, erano evidenti dei vantaggi reciproci, oggi quella cinese non è più soltanto un’influenza ma rischia di diventare, ammesso che già non lo sia, una vera e propria dipendenza sotto diversi punti di vista.


Molti Paesi africani godono di un’economia che si basa prevalentemente o esclusivamente sulle risorse petrolifere. Da diversi anni, nel recente passato, molti Governi hanno compreso la necessità di diversificare le loro economie puntando anche a settori diversi (primario e terziario) o alle energie rinnovabili. Questi ambiziosi e fondamentali progetti, però, necessitano di investimenti ingenti che solo un Paese terzo può finanziare ed ecco che, davanti a questa necessità, la Cina ha risposto presente.


Ogni aiuto dato da Pechino, però, ha comportato la contrazione di debiti di grandi quantità e molto difficili da sanare, soprattutto nel medio-lungo periodo. Allora ecco che la Cina, anche tramite un’accurata politica di soft power, sta diventando padrona delle istituzioni industriali, economiche e finanziare di questi Paesi perché questo è l’unico modo di saldare la loro posizione debitoria.


In maniera superficiale, e neanche troppo, colpisce come in Sudafrica e Uganda lo studio del mandarino sia diventato obbligatorio e alcuni docenti africani siano affiancati dalle filiali continentali dell’Istituto Confucio per poter apprendere i metodi di insegnamento di questa lingua. Inoltre, un’indagine universitaria sudafricana ha rivelato che, ad oggi, imparare il mandarino è uno strumento fondamentale in Africa per avere vere e proprie opportunità di lavoro.


Entrando, invece, nei rami economici della vicenda, ecco alcuni esempi per comprendere la realtà affaristica di cui sopra. Il Kenya ha completato uno dei principali porti (quello di Mombasa) dell’intera fascia costiera orientale africana; se Nairobi non sarà in grado di saldare il suo debito, la Exim Bank of China ne assumerà il pieno controllo per ben 99 anni. Stesso dicasi per il Gibuti, che con il suo debito estero detenuto all’82% da Pechino, rischia di perdere il suo porto nazionale, infrastruttura vitale per la sua ancora debole economia, in favore dei Cinesi.


I dati del Fondo Monetario Africano dimostrano che molti Paesi hanno ridotto il loro debito pubblico, ma hanno gravemente aumentato quello estero (ovviamente a diretto e completo vantaggio di Pechino).


Se in passato, l’Africa ha potuto conquistare la libertà combattendo delle lunghe guerre di indipendenza, stavolta, confrontarsi con le armi dei trattati, del denaro e della fredda economia sembra davvero una missione impossibile. Il “polpo” Cina e i suoi lunghi tentacoli sembrano davvero infiniti e dotati di una stretta troppo poderosa.

 

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