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Il cieco sionismo

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Ciò a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, anche se in questo momento vige un fondamentale e necessario “cessate il fuoco”, è l’ennesimo capitolo di una storia tra Israele e Palestina che ha visto costantemente tensioni, crisi umanitarie, scontri e un prezzo umano troppo alto.


Di anni ne sono passati tanti, a più riprese è stato registrato l’intervento della diplomazia e della comunità internazionale con l’obiettivo di avvicinare le due parti. Eppure, puntualmente, basta così poco per riaccendere la miccia tra questi due popoli.


In quello che oggi è un territorio conteso tra Israeliani e Palestinesi ci sono state aspirazioni di una Nazione ebraica fin dal passato, nonostante la lunga presenza palestinese.


Alla fine dell’800, ci furono due fattori che promossero questa idea. La prima dietro la constatazione di un massiccio flusso migratorio di persone di religione ebraica che, in fuga dalla Russia zarista a causa di una accentuata politica antisemita, si riversò in Palestina; la seconda, invece, riguardò la quasi contemporanea affermazione del pensiero sionista di Theodor Herzl, promotore di un’idea politico-religiosa che prevedeva il ritorno degli Ebrei nella terra di origine dei Padri, appunto Sion.


Questo pensiero, che divenne un vero e proprio collante per l’intera Nazione ebraica che viveva nelle parti più disparate del mondo, rappresentò una calamita fondamentale, un’eco alla propria terra natale che vedeva nella Città Santa, Gerusalemme, il fulcro centrale del sogno sionista.


Per quanto i desideri sionisti erano spinti da rivendicazioni culturali comprensibili (il popolo ebraico è stato uno dei primissimi a vivere il fenomeno della diaspora fin dai primi anni dopo la nascita di Cristo durante l’Impero Romano e la guida dell’imperatore Tito), non avevano fatto completamente i conti con la realtà socio-politica dell’area in quel periodo storico.


Infatti, prima e durante la Grande Guerra, la Palestina era sotto il controllo diretto degli Ottomani e la regione aveva delle connotazioni religiose, politiche e sociale dichiaratamente musulmane e arabe. La fine del conflitto portò le potenze europee a ridisegnare il Medio Oriente con l’ingresso nei territori di Gran Bretagna e Francia e con il conseguente tradimento delle speranze dei popoli.


Gli Inglesi, che dal 1917 erano favorevoli alla costituzione di uno Stato ebraico, ottennero il mandato di Palestina: nella parte est istituì la Transgiordania (poi Giordania), mentre a ovest accettò di tutelare gli insediamenti ebraici, pur rassicurando gli Arabi presenti, ovvero i Palestinesi. Dunque, il pellegrinaggio ebraico si intensificò.


Dopo le prime ondate dall'Europa Orientale, migliaia di Ebrei, con l'ascesa dei regimi fascisti, lasciarono l'Europa Occidentale per approdare sulla terra degli avi. Prima nacquero gruppi radicali per rivendicare l'identità palestinese e poi, tra il 1936 e il 1939, scoppiò una grande rivolta. I Britannici la repressero e allo stesso tempo limitarono l'emigrazione ebraica.

La fine della Seconda Guerra Mondiale e la scoperta degli orrori dell'Olocausto stravolsero ogni scenario. Il genocidio nazista infatti non poté che rinforzare la causa sionista e, in breve, "la terra promessa" si trasformò in un’area di crisi. Così, il Regno Unito optò per il ritiro dalla Palestina e delegò la questione all'Onu. Infatti, fu troppo il peso per la scoperta degli orrori nazisti e questo creò un vero e proprio debito umanitario e sociale nei confronti degli Ebrei da parte di tutto il mondo.


Nel 1947 l'Assemblea generale dell'Onu approvò la “risoluzione 181” (il piano di partizione della Palestina) e indicò la strada da percorrere: due Stati sulla stessa terra, uno ebraico (che avrebbe coperto il 55% della zona e ospitato anche 400mila palestinesi) e l'altro arabo (meno esteso, ma quasi integralmente musulmano), con Gerusalemme sotto controllo internazionale. I leader ebrei, che ormai rappresentavano 600mila individui, accettarono, mentre i Palestinesi, che rappresentavano un milione e 250mila, no.


Così, quando il 14 maggio del 1948, prima del ritiro britannico, la comunità ebraica dichiarò l'indipendenza dello Stato di Israele con l'assenso di molti Paesi, tra cui USA e URSS, scoppiò una guerra con quelli che non lo accettarono. Gli Stati confinanti della Lega Araba, che consideravano il sionismo un'ingerenza straniera, attaccarono Israele, che a sua volta contrattaccò.


Da quel momento in poi, si è avuta una lunga escalation di violenze che hanno visto nei diversi conflitti militari che hanno coinvolto diversi attori medio-orientali per molti anni. Tra i principali, è doveroso ricordare gli accordi del 1949 che hanno dato la spinta ad Israele di estendersi territorialmente a spese della popolazione palestinese che scappò dai nuovi territori israeliani per paure di ritorsione. La grande ondata migratoria, stavolta araba, non fu mai pienamente accolta e integrata dagli altri Paesi limitrofi, nonostante alcune importanti caratteristiche comuni religiose e culturali che avrebbero facilitato questo processo.


Successivamente, la guerra dei Sei Giorni, la crisi di Suez e i successivi accordi di Camp David mostrarono un Israele sempre più forte anche perché spalleggiata dalla comunità internazionale. Nel 1978, gli Israeliani lasciarono il Sinai dietro il riconoscimento del loro Stato da parte degli Egiziani.


Una lezione di storia che non vuole insegnare nulla, ma fungere solo da ripasso per un approfondimento importante. Perché se è fondamentale conoscere il passato, allora lo si conosca bene e lo si studi con spirito critico. Ciò che oggi abbiamo tra questi due popoli è il frutto di una serie di errori che sono derivati anche da una voluta ignoranza della realtà storico-sociale e territoriale che Europei e Americani hanno millantato come “soluzione migliore”. Non si tratta di dare delle bandiere politiche o dei nomi specifici a certi fenomeni o orientamenti. Non si fugga sempre negli inutili e stucchevoli luoghi comuni della politica.


Si abbia, invece, il coraggio di ammettere gli errori. Dare un Paese ad un popolo che ha peregrinato e sofferto come gli Ebrei era un atto dovuto. Farlo, spazzando via ogni diritto individuale e collettivo di un altro popolo è stato un macroscopico errore di cui il prezzo viene ancora pagato oggi, come sempre purtroppo, dai civili.

 

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