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Farm to Fork o il pomo (bio) della discordia. Analisi della rivoluzione alimentare della Commissione

Immagine del redattore: Alessandro De GrandiAlessandro De Grandi

Collocandosi all’interno del più ampio piano dell’European Green Deal, la Farm to Fork strategy, o “dal produttore al consumatore”, concretizza la volontà della Commissione di trasformare il percorso del cibo dalla produzione nei campi fino alla nostra tavola. In questo senso, l’obiettivo finale è una riduzione della lunghezza della filiera produttiva. Tagliare sensibilmente i passaggi della trasformazione (raffinazione, imballaggio, vendita al dettaglio) del cibo realizza, nello stesso momento, due sotto-obiettivi della maggioranza al governo: un cibo che sia il meno industriale possibile e una, contestuale, riduzione delle emissioni di gas serra.


La riforma trae ispirazione dall’analisi effettuata da IPES-Food “Verso una politica alimentare comune per l'Unione europea”(1), con cui si è attraversato il mondo della produzione alimentare per scoprirne i punti di rottura in cui poter inserirsi e, sostanzialmente, rivoluzionare. Utilizzando la chiave di lettura delle emissioni di gas serra, degrado del suolo, inquinamento atmosferico, riduzione della perdita di biodiversità, si cerca di eliminare ogni volontà meramente estrattiva nei confronti della natura.


Come detto, si mette al centro dell’azione legislativa la sostenibilità della filiera produttiva. Sappiamo, infatti, che la produzione alimentare è responsabile del 30% (2) delle emissioni globali di carbonio (sintetizzato sia come metano CH4, sia nella sua forma più banale CO2). La sostenibilità va semanticamente traslata dal significato finanziario che abbiamo imparato a conoscere negli anni dell’austerity: siamo di fronte ad un cambiamento anche culturale, che coinvolge il nostro modo di mangiare e di nutrirci, in un allargamento del senso della sostenibilità ad aspetti economici, sociali, filosofici, oltre che monetari.


L’azione si rivolge alla sicurezza alimentare, cercando un’intesa sulla qualità del prodotto in relazione ad un corretto apporto di macronutrienti. Le malattie croniche derivanti dalla squilibrata assunzione di calorie sotto la forma zuccherina, oppure sale e grassi saturi, costituiscono, infatti, l’80% dei costi sanitari dell’UE. Le malattie cardiovascolari, cui uno dei maggiori fattori di rischio è proprio una dieta sbilanciata, costituiscono la prima causa di morte nell’Unione. La relazione di Dorfmann e Hazekamp, i due eurodeputati incaricati di redigere il progetto per la commissione ENVI al Parlamento Europeo, insiste sulla dannosità delle proteine animali, posizione che ha creato qualche alzata di sopracciglio soprattutto da parte delle lobbies degli allevamenti. Nel progetto si paventa, infatti, l’introduzione di un’etichettatura a semaforo informativa della qualità intrinseca del prodotto, prendendo essenzialmente a riferimento le quantità di grassi, zuccheri e sale. Questo punto ha generato le attese proteste di Confagricoltura e delle altre associazioni della filiera agroalimentare, soprattutto italiana. L’etichettatura a semaforo, secondo loro, potrebbe portare a penalizzare soprattutto quest’ultima: distinguere soltanto tra tre macronutrienti (zucchero, grassi e sale) comporta non tenere in considerazione tutta una serie di molecole che sono, invece, presenti in molti prodotti italiani e che costituiscono la spina dorsale della dieta mediterranea.


A preoccupare non è solo la, presunta, pretesa vegana, ma anche la teorizzazione di un’agricoltura (troppo) green: tra gli obiettivi ci sono quelli di dimezzare la perdita di nutrienti, lasciando invariata la fertilità del suolo, fino ad una riduzione del 20% dei fertilizzanti; oppure ridurre del 50% la somministrazione di antimicrobici e di antibiotici per animali e piante; la trasformazione del 25% dei terreni agricoli in aree a coltura biologica e, infine, la riduzione del 50% dell’utilizzo di pesticidi chimici. L’orizzonte temporale è quello del 2030, sconvolgendo in relativamente pochi anni la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento industriale. L’ottica di economia circolare in cui è inserita la strategia non lascia tranquilli i produttori che, a loro dire, da un giorno all’altro sarebbero costretti a modificare la loro modalità di produzione. A fronte di un fondo di più di 20 miliardi, non è ancora chiaro come implementare tali finalità con una tecnologia produttiva che garantisca gli stessi risultati quantitativi. Le critiche maggiori sono, infatti, verso una serie di obiettivi che, se da un lato sono un notevole passo in avanti verso la sostenibilità ambientale, dall’altro rischiano di alzare sensibilmente i costi fissi dei produttori, i quali si vedranno costretti a scaricare questo aumento sul prezzo dei loro prodotti. Per le leggi del mercato, quindi, le risultanze di queste imposizioni potrebbero riversarsi sui consumatori, i quali saranno costretti a pagare i prodotti domestici ad un prezzo sensibilmente più alto. Insomma, si rischia di generare una riduzione del potere d’acquisto dei cittadini europei, influenzando le loro scelte economiche, spingendoli ad acquistare prodotti esteri non vincolati dalle leggi europee che saranno avvantaggiati da prezzi più competitivi.


La competizione internazionale è, infatti, il punto che più preoccupa le associazioni di categoria: si chiede una valutazione di impatto sulle possibili conseguenze dell’implementazione della strategia, considerando anche le contingenze economiche dei prossimi anni di recupero dalla crisi pandemica. La questione dei salari, e quindi la correlazione con le scelte che vengono fatte dalla stragrande maggioranza della popolazione, rischia di generare una gara in cui i produttori nostrani partono inevitabilmente svantaggiati.


La stessa Confagricoltura cerca di porre l’attenzione della politica sull’effettiva centralità della sostenibilità (ambientale), che dovrebbe essere il vero discrimine: se si vuole rivoluzionare il percorso dal campo alla tavola, è necessario che i costi di questa rivoluzione siano ben distribuiti. La sostenibilità, secondo l’associazione dei produttori agricoli, non dovrebbe essere la via di una rivendicazione ideologica, ma la condivisione di una strada che fondamentalmente nessuno rinnega, ma i cui pesi e contrappesi non sembrano, ad oggi, ancora ben definiti.


Centrali saranno la PAC (che soffre già di qualche problema, vedi le volontà della Commissione di rivedere integralmente il progetto così come uscito dal trilogo con Consiglio e Parlamento) e la PCP (la politica comunitaria per la pesca). Una lista di obiettivi, per quanto condivisibile, non è sufficiente. La stessa Commissione proporrà entro il 2023 un sistema legislativo che faccia da quadro sui sistemi alimentari sostenibili: le discussioni interne alle commissioni parlamentari ruotano attorno alla centralità della coerenza. Non si vuole tralasciare nessun aspetto, anzi, sapendo perfettamente che ogni obiettivo imposto necessita di un adeguato investimento in ricerca, diffusione di know-how, formazione e sostegno economico alla transizione. La palla poi passerà ai Parlamenti nazionali, i quali dovranno approvare piani strategici nazionali che siano in linea con PAC e Farm to Fork: uno sforzo normativo diffuso e che reca non poche insidie, tentando di mettere insieme 27 parlamenti diversi, ognuno con la sua cultura e filosofia alimentare. Il multilateralismo sarà la chiave del successo, il meccanismo parlamentare dovrà necessariamente votarsi alla responsabilità di non compromettere il significato profondo della sfida che la Commissione pone per questa generazione e per le prossime.


 

Fonti:

(1) IPES-Food (2019) Verso una politica alimentare comune per l'Unione europea, http://www.ipes-food.org/_img/upload/files/CFP_FullReport.pdf


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