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Da Washington a Tel-Aviv, passando per Rabat

Immagine del redattore: Omar JouadOmar Jouad

Le immagini che sono arrivate da Ceuta la settimana scorsa hanno sbigottito l’opinione pubblica dell’Europa intera. Tra il 17 e 18 maggio ben ottomila migranti, prevalentemente provenienti da Marocco, Niger, Mali e Senegal, hanno invaso l’enclave spagnola di Ceuta (e alcuni anche quella di Melilla) in territorio nordafricano grazie alla scarsa resistenza opposta dalle forze dell’ordine marocchine. Vista la prossimità geografica al continente europeo dell’enclave, tra Spagna e Marocco vige un accordo che impegna la polizia marocchina a pattugliare la frontiera con la città costiera di Ceuta di proprietà della Spagna, la quale vi ha anche installato un’importante recinzione, composta da filo spinato, alte mura e persino barriere subacquee per evitare che migranti disperati tentino di raggiungere a nuoto il loro trampolino per l’Europa. In quei giorni, però, la polizia di frontiera marocchina è venuta meno al rispetto di questo accordo, incoraggiando così i migranti ad assaltare le barriere. Questo fatto ha provocato un’immediata reazione da parte del governo spagnolo, che è ricorso all’uso di blindati e di soldati dell’esercito per fermare l’invasione, oltre ad inviare sul posto il primo ministro Pedro Sánchez assieme al ministro dell'Interno Fernando Grande-Marlaska, al fine di monitorare la situazione e rassicurare gli abitanti della cittadina costiera sul fatto che Madrid avrebbe riportato la normalità al più presto. Un arduo tentativo quello del premier spagnolo, poiché da tempo i cittadini di Ceuta si sentono abbandonati da Madrid, come hanno confermato i fischi dei cittadini locali che hanno accolto il primo ministro.

La situazione è tornata alla normalità entro la fine della stessa settimana. Sebbene quasi la metà dei migranti entrati clandestinamente siano stati espulsi in poco tempo dalla polizia spagnola, quest’ultima ha rivelato, stando alle parole di un militare intervistato dal quotidiano online eldiario.es, che il protocollo da seguire non è molto chiaro: infatti, se da un lato vige l’accordo bilaterale tra Rabat e Madrid (siglato nel 1992 dal primo ministro spagnolo Felipe Gonzales e il suo omologo marocchino Driss Basri) che consente di espellere migranti clandestini provenienti dal Marocco in meno di dieci giorni, dall’altro c’è il diritto internazionale che vieta le espulsioni di minori, come rivendicato da ottantacinque ONG (fra cui Caritas, Unicef, Cruz Roja e Save The Children). I minori, in virtù della legge di protezione dell’infanzia, possono essere riaccompagnati alla frontiera solo sotto la supervisione giudiziale, quindi le modalità con cui si stanno svolgendo queste espulsioni sono state oggetto di dibattito interno al governo spagnolo, come ha rivelato Ione Belarra, ministra dei diritti sociali.


Dietro all’atteggiamento passivo adottato dalle forze di polizia marocchine alla frontiera si celano ragioni geopolitiche, che trapelano sia dalle dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatrice marocchina a Madrid Karima Benyaich, sia da quanto scritto su Facebook dal ministro dei Diritti Umani del Marocco, Mustafa Ramid. Mohamed VI, infatti, non avrebbe visto di buon occhio l’assistenza fornita dal governo spagnolo a Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario, il quale è ricoverato dallo scorso 21 aprile in un ospedale nei pressi di Saragozza a causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo essere riuscito ad ottenere, tramite il governo algerino (storico alleato del Fronte Polisario e strategico partner economico della Spagna), l’accesso nella penisola iberica con un passaporto falso e una garanzia di immunità concessa dal premier Sanchez, poiché in Spagna Ghali è indagato per tortura, genocidio, terrorismo, violazione dei diritti umani, lesioni, detenzione illegale e altri gravi capi d’accusa. Crimini che sono collegati al suo ruolo di presidente del Fronte Polisario, movimento che si batte militarmente dagli anni Settanta per l’autonomia del Sahara occidentale a favore della popolazione sahrawi, la quale vive in un territorio ricco di risorse minerarie e pesce, quindi per questo conteso anche da Mauritania e Marocco. Finora il Fronte Polisario ha ottenuto, nel 1975, il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite, le quali però ancora non riconoscono l’autoproclamata Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi nata nel 1976. Dopo aver mediato il cessate il fuoco nello scontro militare col Marocco nel 1991, l’ONU progetta di instaurare nel Sahara occidentale un governo transitorio fino a che non si avranno gli esiti di un referendum, finora però mai organizzato proprio per le resistenze poste da Rabat.


Tale Repubblica è guidata da un presidente (ruolo ricoperto da Ghali dal 2016) e da un primo ministro, il quale è a capo di un governo che si trova attualmente in esilio presso la città di Tindouf in Algeria. Quest’ultima ha da sempre supportato la causa del Fronte (assieme alla Libia di Gheddafi, il quale però ha fatto venire sempre meno il suo appoggio nel corso degli anni), poiché spera di ottenere uno sbocco verso l’Oceano Atlantico grazie all’alleanza col movimento. A livello internazionale la posizione non è univoca rispetto alla questione del popolo sahrawi, in quanto alcuni Paesi riconoscono sia il Fronte che la Repubblica, altri soltanto il Fronte (come l’ONU, appunto), altri non riconoscono né il Fronte né la sovranità del Marocco sul territorio. Di fatto, l’annessione del Sahara occidentale da parte del Marocco non è riconosciuta da nessun Paese nel mondo, ma la situazione è cambiata sul finire dell’anno scorso. Il primo passo a favore di tale annessione è provenuto da Washington il 10 dicembre 2020, quando il presidente Donald Trump, pur di incrementare il numero di Paesi musulmani che riconoscono lo Stato di Israele in nome degli Accordi di Abramo, ha espresso la propria approvazione alla sovranità marocchina sul Sahara occidentale. Questo fatto acutizzò gli scontri tra Rabat e il Fronte Polisario che, dopo circa trent’anni di calma al confine, erano ripresi nei mesi precedenti alla mossa statunitense, con l’occupazione militare del governo marocchino di una zona cuscinetto tra Sahara occidentale e Mauritania, al fine di sedare una protesta innescata dal popolo sahrawi il quale aveva bloccato un’importante via commerciale che collega il Marocco con l’Africa subsahariana. Il Fronte accusò quindi il Marocco di aver violato il cessate il fuoco stipulato nel ’91 e promosso dall’ONU. Secondo quanto riportato da Al-Jazeera English, un funzionario marocchino aveva rivelato ad Agence France-Presse come queste provocazioni del Fronte Polisario facessero parte di una “guerra mediatica” volta ad attirare l’attenzione internazionale sulla questione del Sahara occidentale. Ciononostante, la mossa di Trump ha disatteso le aspettative del movimento di Ghali.


I fatti di Ceuta, mostrano ancora una volta come i migranti possano essere usati come arma di ricatto all’interno di scontri geopolitici, proprio come fecero a loro tempo la Turchia di Erdogan e la Libia di Gheddafi. Nonostante il monito del vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, che ha dichiarato «non ci faremo intimidire da nessuno, l’Europa non sarà vittima di tattiche», i fatti mostrano come in realtà la mossa di Rabat abbia prodotto i risultati desiderati. Infatti, affinché il governo di Mohammed VI intensifichi i controlli al confine con Ceuta, la Spagna ha messo sul piatto per Rabat trenta milioni di euro, che andrebbero a sommarsi agli oltre tredici miliardi ricevuti dall’UE dal 2007 ad oggi. Inoltre, dal tribunale spagnolo dell’Audiencia Nacional, è arrivata la notizia che il giudice competente Santiago Pedraz ha deciso di riaprire le indagini nei confronti di Ghali.

L’Europa, e in particolare la Spagna, dovrà stare in guardia alle prossime mosse del governo di Rabat, che ora ha il coltello dalla parte del manico, forte anche della rinsaldata alleanza con Washington, Tel-Aviv e i Paesi arabi del Golfo. Ne sono conferma i molteplici consolati presenti nelle cittadine di Dakhla e Laâyoune (proprio nella porzione di Sahara marocchino a ridosso della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi) appartenenti a Paesi arabi ed africani, oltre che a Washington. Gli Stati Uniti hanno installato il proprio consolato a Dakhla il 10 gennaio scorso, all’inaugurazione del quale il vice-segretario di Stato degli Stati Uniti incaricato delle questioni relative al Medio Oriente e al Nord Africa, David Schenker, ha sostenuto con forza i buoni legami che intercorrono tra USA e la monarchia magrebina, oltre ad affermare che «solo i negoziati politici tra il Marocco e il Polisario nel quadro del piano di autonomia marocchina sono in grado di portare a una soluzione della controversia sul Sahara», in una terra di nessuno dove, a detta degli analisti, una situazione di stabilità scaccerebbe terroristi, narcotrafficanti e organizzazioni criminali che oggi vi operano indisturbati.

 

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