
I danni economici provocati dalla pandemia attualmente in corso potrebbero rivelarsi un assist perfetto per la criminalità organizzata, compresa quella di stampo mafioso. In un momento nel quale bisogna far ripartire l’economia del nostro Paese, è forte il pericolo che molte aziende possano cadere nella trappola di quelle organizzazioni criminali che dispongono di notevoli quantità di denaro liquido, da sfruttare sia come “prestito” per imprenditori in difficoltà che per acquisire partecipazioni di aziende in crisi, come ristoranti, bar e alberghi. La scarsa liquidità a disposizione, insieme ai ritardi nell'erogazione dei finanziamenti pubblici da parte delle strutture a ciò preposte, aumenta le possibilità per la criminalità organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico italiano, grazie all’acquisizione di imprese in difficoltà e alla ormai nota capacità di subentrare nelle procedure pubbliche dirette all’affidamento delle forniture di beni e servizi.
Le mafie, insomma, riescono perfettamente ad adattare il proprio modus operandi in base allo scorrere dei tempi e alle opportunità che volta per volta si presentano come le più redditizie e convenienti. Il discorso è particolarmente vero per Cosa Nostra, l’organizzazione criminale più attiva in Sicilia, che si è arricchita in maniera particolare dopo aver messo le mani sugli appalti, grazie ai legami sviluppati non solo con il mondo imprenditoriale, ma anche con quello politico.
Tali legami erano vivi già dai tempi immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Dopo il ventennio fascista, durante il quale i gruppi mafiosi siciliani dovettero fare i conti con la forte repressione messa in atto dal Prefetto Cesare Mori, l’avvento della Democrazia Cristiana determinò l’inizio dei rapporti tra la classe politica e il mondo mafioso. Se in un primo momento gli interessi dei clan mafiosi erano rivolti principalmente al controllo dei terreni, l’attenzione si concentrò presto su affari molto più redditizi, come il traffico di droga e gli appalti pubblici, dato che molte zone della Sicilia dovevano essere ricostruite dopo la fine della guerra. Nel trentennio tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta, la Sicilia fu teatro di due guerre interne alla mafia e di numerosi omicidi contro magistrati, membri delle forze dell’ordine e giornalisti. La reazione dello Stato, che riuscì ad assicurare alla giustizia buona parte dei vertici della mafia, convinse l’organizzazione a sviluppare i propri affari in maniera discreta e silente, evitando omicidi e stragi.
Per comprendere l’importanza dei rapporti sviluppati tra i gruppi mafiosi e la politica locale, basti fare l’esempio dei clan maggiormente attivi nella Sicilia orientale, soprattutto nelle province di Catania e Messina.
Nella provincia di Messina era attivo il clan Costa, al cui vertice vi era Gaetano Costa, per la verità più legato alla ‘Ndrangheta calabrese che ai clan siciliani. Altre aree del messinese interessate dall’attività mafiosa erano quelle di Barcellona Pozzo di Gotto e dei Nebrodi. Proprio nei Nebrodi, già dopo la fine della seconda guerra mondiale, le cosche cominciarono a mettere in atto una mattanza silenziosa contro quei contadini, sindacalisti e politici che si opponevano al loro volere e si rifiutavano di cedere i loro terreni. A partire dagli anni Duemila, inoltre, il controllo di terreni agricoli consentì al clan dei Nebrodi di ottenere i finanziamenti che venivano erogati da parte dell’Unione Europea. Le vicende connesse alla mafia dei Nebrodi cominciarono a venire fuori solamente nel 2013, quando Giuseppe Antoci assunse la Presidenza del Parco dei Nebrodi. Durante il suo mandato decise di prestare molta più attenzione sulle assegnazioni dei terreni in quell’area e, attraverso un accordo con gli enti locali e regionali, decise di creare il Protocollo legalità, che divenne una legge di Stato ribattezzata Protocollo Antoci. Il lavoro di Antoci determinò la reazione delle cosche, che lo minacciarono di morte. Antoci venne messo sotto scorta. Nel 2016 i clan decisero di organizzare un agguato per ucciderlo, ma gli uomini della scorta riuscirono a salvarlo, anche grazie al pronto intervento del commissario Daniele Manganaro.
Quanto alla zona catanese, invece, il clan Santapaola riuscì a stringere fondamentali legami con la politica e l’imprenditoria. Tra i primi ad accorgersi di tali legami vi fu il giornalista Giuseppe Fava, della cui morte ricorre oggi il trentasettesimo anniversario. Grazie alle sue inchieste approfondite e dettagliate sulla Cosa Nostra catanese, Fava fece emergere importanti rapporti tra i gruppi mafiosi locali e il mondo imprenditoriale e politico. In particolare, l’attività di Fava si concentrò sulla figura di Benedetto Santapaola, divenuto boss della malavita locale verso la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, quando riuscì a eliminare i suoi principali rivali, Giuseppe Calderone e Alfio Ferlito. Santapaola non gradì le inchieste di Fava e, per questo motivo, lo fece uccidere la sera del 5 gennaio 1984: gli esecutori furono Aldo Ercolano e Maurizio Avola, due killer legati proprio al clan Santapaola. Il movente dell’omicidio, tuttavia, fu inizialmente individuato in motivi passionali. Solo nei primi anni Duemila, grazie al processo Orsa Maggiore,vennero accertate le responsabilità di Cosa Nostra nel delitto Fava: questo determinò la condanna all’ergastolo sia per Santapaola, in qualità di mandante, che per Ercolano ed Avola, come esecutori materiali.
In conclusione, sebbene negli anni recenti la mafia siciliana abbia deciso di operare perlopiù in modo silenzioso spostando i propri interessi sul mondo degli appalti grazie ai legami con la politica e l’imprenditoria, le vicende di Antoci e Fava dimostrano come i clan mafiosi siano ancora pronti a ricorrere alla violenza pur di salvaguardare il raggiungimento dei propri obiettivi.
“In memoria di Giuseppe Fava e di tutte le vittime della criminalità organizzata.”
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