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Clima vs Economia

Immagine del redattore: Vanni NicolìVanni Nicolì

Durante la pandemia, l’intero pianeta è stato costretto a vivere un periodo di assoluto riposo dalle numerose, continue e inquinanti attività che caratterizzano lo sviluppo umano sia dal punto di vista economico che tecnologico.


In modo illuminante e illuminato, a tratti anche con un pizzico di ipocrisia, i grandi della Terra hanno dovuto aspettare questo stop forzato per vedere una maggiore crescita del verde nelle principali città, il ritorno di pesci e mammiferi acquatici nei loro habitat naturali e la chiusura del buco dell’ozono.


Come se in passato nessuno, tra gente comune preoccupata del proprio futuro e di quello delle generazioni successive e membri della comunità scientifica internazionale, avesse cercato di sensibilizzare su questi punti. Il lontano Protocollo di Kyoto del 1997, l’adozione dell’Emendamento di Doha nel 2012 o il famoso Accordo di Parigi del 2015 hanno dato l’impressione di non poter esser rispettati senza che ci fosse una catastrofe umana e sanitaria come questa pandemia che ci ha obbligato a rimanere a casa o a non usare i combustibili per molte delle nostre attività comuni e quotidiane.


Nonostante dei sensibili e imprevisti miglioramenti, la condizione di salute del nostro tanto bistrattato pianeta consegna un ecosistema ancora malato e in grave difficoltà.


La situazione più preoccupante è quella che si riferisce allo scioglimento dei ghiacciai e alla tutela delle specie animali che vivono stanziate da anni in una regione come la Groenlandia.

Nel 2019, quando il Coronavirus era qualcosa di impensabile, abbiamo assistito ad una corsa economica spudorata e pericolosa verso l’immensa isola ghiacciata a nord del Canada.


L’ex Presidente Donald Trump aveva manifestato tutto il suo interesse ad acquistare l’isola che, seppur si presenta come territorio autonomo con una sua capitale (Nuuk), in termini di politica estera e di sicurezza risponde alla Danimarca. Davanti al progetto di acquisto, la premier danese Mette Frederiksen aveva rigettato la proposta sottolineando come la Groenlandia non fosse in vendita.


Al di là dell’intenzione di Trump, è innegabile che due grandi attori geopolitici come Stati Uniti e Cina siano molto interessati alla Groenlandia. La conferma dell’interesse cinese deriva da un importante incontro nel 2017 quando il primo ministro di questa regione autonoma, Kim Kielsen, volò a Pechino per incontrare degli importanti uomini d’affari esponenti del mondo bancario e finanziario cinese.


La scarsità delle infrastrutture e la ricchezza di terre rare e minerali preziosissimi per l’economia di Pechino hanno permesso l’inizio di un importante connubio commerciale.


La Chinese Communication Construction Company (CCCC) offrì di realizzare dei grandi progetti di espansione dei piccoli aeroporti groenlandesi e la costruzione di un aeroporto nuovo in Qaqortoq. Non appena la società viene selezionata tra i potenziali appaltatori, il Governo danese scese subito in campo offrendo 700 milioni di corone danesi e un prestito di ulteriori 450 milioni per finanziare gli aeroporti. In seguito, la CCCC ha ritirato la sua offerta. La spiegazione apparsa sui giornali locali è davvero poco convincente. Secondo la ricostruzione della stampa nazionale, gli ingegneri cinesi avrebbero avuto grandi difficoltà nell’ottenere i visti da parte del Governo danese.


In verità, da Washington è arrivato l’alt che ha fatto uscire di scena la Cina. Spaventati dalla deriva coloniale-commerciale che Pechino ha intrapreso in Africa e che poteva replicare in Groenlandia, USA e Danimarca hanno concluso un accordo sulla costruzione di una base militare statunitense nella regione.


Una mossa di grande importanza che ha visto gli USA entrare direttamente negli affari groenlandesi.


Al netto di questo scontro economico-commerciale che spinge a riflettere sul modo sempre più sofisticato e lontano dalle armi di farsi “guerra” fra Paesi, sorge in modo spontaneo un dubbio di natura preoccupante.


La sfida per la salvaguardia della Terra vede due partite di fondamentale importanza. La prima, non ancora persa ma molto difficile è nella foresta dell’Amazzonia. La seconda, al momento ancor più complicata della precedente, è la prevenzione dello scioglimento dei ghiacciai. La Cina non ha aderito all’accordo di Parigi, mentre gli Stati Uniti, dopo l’intervento del neopresidente Biden, sono diventati firmatari dal 19 febbraio 2021.


Nonostante queste dinamiche, Washington sarà in grado di tenere fede agli impegni e bloccare la corsa del riscaldamento globale anche se lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia darà la possibilità di rendere molto più facili le estrazioni di materiali preziosissimi come uranio, carbone, diamanti e gas naturale?


È davvero difficile proteggere e lasciare cristallizzato un intero territorio che potrebbe rappresentare uno dei nuovi centri geopolitici mondiali più infuocati degli ultimi anni.


Quanto il desiderio di impegnarsi per il bene comune potrà essere difeso e non sovrastato dalla possibilità di accumulare un importantissimo vantaggio economico nei confronti di una potenza diretta concorrente per l’egemonia mondiale?

 

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