
Mercoledì 18 febbraio è comparso dinanzi alla camera della corte suprema di Kigali (Ruanda) Paul Rusesabagina, cittadino belga accusato di terrorismo dal governo ruandese e arrestato nell’agosto 2020 in forza di un mandato d’arresto internazionale emesso dallo stesso esecutivo.
Il nome di quest’uomo divenne celebre a livello internazionale in seguito all’uscita nel 2004 del film “Hotel Rwanda”, la cui trama trae origine dalla sua impresa durante la guerra civile ruandese degli anni Novanta. In questo contesto, nel 1994 gli estremisti hutu compirono un genocidio ai danni della minoranza tutsi, la quale all’epoca costituiva il quindici percento della popolazione nazionale. Paul Rusesabagina, figlio di padre hutu e madre tutsi, offrì protezione nel proprio hotel a cinque stelle nella città di Kigali a chiunque fosse in fuga dai machete degli estremisti, riuscendo così a salvare 1.268 vite umane. Dopo la fine della guerra, l’uomo riuscì a ottenere asilo politico dal Belgio, dove riuscì a far conoscere la propria storia tramite la stesura dell’autobiografia intitolata “An ordinary man”, nella quale espresse anche la sua ostilità politica verso il partito alla guida del Paese nativo, il Front Patriotique Rwandais, il cui presidente Paul Kagame starebbe preparando una lunga dittatura caratterizzata da una scarsa libertà d’espressione e di feroce intolleranza contro ogni oppositore. La fama di Rusesabagina salì alla ribalta internazionale a seguito dell’uscita del film dedicato alla sua storia, e il 9 novembre 2005 il presidente statunitense Bush gli appese al collo la medaglia presidenziale della libertà, a premio del suo coraggio e della sua compassione di fronte al terrore genocida. Egli iniziò dunque a sfruttare la propria notorietà tenendo discorsi pubblici in università, scuole, chiese e aziende, nel corso dei quali espresse più volte la propria ostilità nei confronti dell’esecutivo ruandese, tanto che da Washington fondò il partito politico in esilio Party for Democracy in Rwanda (PDR-Ihumure) e il Rwanda Movement for Democratic Change, di cui è presidente.
Il 28 agosto scorso il volo di Paul Rusesabagina partito da Chicago e diretto in Burundi – dove avrebbe dovuto tenere un discorso in pubblico su invito di un parroco locale – fece scalo a Dubai e successivamente, anziché portarlo alla destinazione prestabilita, lo fece atterrare all’aeroporto di Kingali, da dove fu poi condotto in arresto al carcere Mageragere. I capi d’accusa a suo carico sono ben nove, fra cui omicidio, rapina a mano armata e appartenenza ad un’organizzazione terroristica.
Il gruppo terroristico a cui si farebbe riferimento è il Front de Libération Nationale (FLN), ritenuto dalle autorità ruandesi il braccio armato del Rwanda Movement for Democratic Change, la cui matrice terroristica è stata negata in passato dal presidente del movimento. Il FLN fu accusato nel 2018 di essere responsabile degli attacchi perpetrati a sud del Paese lungo il confine con il Burundi, e il legame di Rusesabagina con questo gruppo sarebbe dimostrabile dalle sue dichiarazioni espresse in un video dello stesso anno in cui disse che era giunto il momento di “far ricorso a qualsiasi mezzo” per portare il Ruanda al cambiamento. Il Ruanda, sotto il proprio presidente Kagame, è diventato il secondo Paese africano in cui la libertà di parola è maggiormente negata, preceduto solo dall’Eritrea. Questo spiega le accuse ai danni di Rusesabagina che, a detta della famiglia e del suo legale, non sarà sicuramente sottoposto ad un equo processo.
Ora è detenuto in isolamento, nonostante soffra di problemi alla pressione sanguigna, potenzialmente aggravabili dalla pandemia in corso. I medicinali che la famiglia gli avrebbe procurato tramite l’ambasciata belga non gli sarebbero mai arrivati. All’uomo sono anche stati negati i colloqui col suo avvocato, il quale afferma che il Ruanda non avrebbe alcun diritto a sostenere questo processo, sia perché Rusesabagina è un cittadino belga e non ruandese, sia per le anomale circostanze riguardo il suo arresto. L’oppositore politico, infatti, fu arrestato sotto mandato d’arresto internazionale emesso dal Ruanda grazie a una “operazione impeccabile”, a detta del presidente Kagame. Tuttavia, le autorità belghe – a cui l’arresto fu notificato solo in un secondo momento – hanno dichiarato che l’arresto non è mai avvenuto sul suolo belga e hanno negato di aver concesso l’estradizione. Il difensore ha anche presentato una denuncia a carico di Constantin Niyomwungere, un agente dei servizi segreti ruandesi che avrebbe ingannato Rusesabagina trattenendolo e arrestandolo.
L’arresto ha scosso la comunità internazionale e le organizzazioni per i diritti umani, tanto che nel dicembre scorso trentasette membri del Congresso statunitense hanno inviato una lettera al presidente Kagame per chiedere il rilascio di Rusesabagina, facendo leva sulle sue condizioni di salute e sulle modalità ingannevoli dell’arresto, condannate anche dal Parlamento europeo nella risoluzione approvata il 10 febbraio, nella quale veniva inoltre fatta richiesta che fossero garantiti i diritti di un cittadino europeo da parte del governo ruandese. Quest’ultimo ha risposto cinque giorni più tardi rigettando le ipotesi su un processo non equo, rievocando l’inviolabilità dell’indipendenza giuridica e giudicando il silenzio dell’Unione europea sugli attacchi terroristici del 2018 quale sinonimo di collusione tra l’Unione e l’organizzazione terroristica di cui Rusesabagina è a capo.
Molti potrebbero vedere questi fatti come un problema a noi lontano, tuttavia questi fenomeni sono strascichi inevitabili del colonialismo europeo, che ne fa ricadere la responsabilità sul nostro passato, rendendo oggi difficile anche l’applicazione di politiche del “aiutiamoli a casa loro”. Inoltre, le accuse mosse dal governo ruandese a danno di Paul Rusesabagina portano ancora una volta a galla quanto sia necessario trovare una definizione universalmente riconosciuta e valida di terrorismo. Soprattutto dal momento che – come dimostra anche questo caso – le accuse di terrorismo possono essere usate a fini di ricatto contro una persona che pacificamente si oppone con il mezzo della parola ad una tirannia.
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