
Ormai tutto è definitivamente sancito (ed era anche ora). La Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa sull’ultimo disperato tentativo di Donald Trump di sovvertire il risultato delle elezioni del 3 novembre che hanno visto la vittoria del candidato democratico Joe Biden.
Il 20 gennaio, volente o nolente, il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America dovrà lasciare la sua poltrona alla Casa Bianca in favore del neo Presidente eletto e, da quel momento, inizierà una nuova legislatura che accompagnerà l’America e il resto del Mondo nei prossimi quattro anni.
Le domande che ognuno di noi si potrebbe porre riguardano la necessità di capire come si orienterà l’agenda di governo di Biden sia in politica interna che, soprattutto, in politica estera. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta un campo in cui l’amministrazione Trump ha preso decisioni importanti e anche spiazzanti rispetto al passato.
Però, vedendo l’ondata di incertezza e instabilità sociale che ha colpito gli USA specie nel periodo preelettorale, potremmo dire che sarà sufficiente che Biden faccia l’esatto opposto per rendere gli Stati Uniti un Paese forte, sicuro e non etnicamente pronto ad esplodere un’altra volta?
Un’opzione del genere, per quanto positiva possa sembrare, rappresenterebbe una visione superficiale e incompleta.
Ovviamente, per quanto concerne la politica interna, potremmo immaginarla esattamente contraria al pensiero di Trump, ma non basta. Gli Stati Uniti hanno fatto vedere di non essere ancora una Nazione, la compresenza di diverse etnie in conflitto tra loro è il sintomo di una grave componente razzista che divide e dilania la popolazione. Il passaggio da politiche di “melting pot” a quelle di “multiculturalismo” non ha portato al cambiamento sperato.
Inoltre, la polizia non riesce, seppur non sempre, si intenda, a garantire quella giustizia ed equità che ci si aspetterebbe da chi è chiamato a rappresentare la legge. Biden dovrà puntare al cuore delle persone, creare i presupposti per un Paese veramente unito e non solo nel nome. Anche perché il futuro Presidente deve vincere un problema non da poco. A votare Trump, e in misura maggiore rispetto alle elezioni del 2016, è stata anche una nutrita schiera di persone latino-americane. Un serbatoio di voti che ha sorpreso e che rappresenta una nutrita componente demografica nel Sud del Paese dalla California fino alla Florida.
Sarebbe di fondamentale importanza riuscire a cucire i rapporti sociali nello Stato sfruttando anche la spinta emotiva e legale nata e diffusasi dal movimento “Black Lives Matter”, magari passando per una riforma del corpo di polizia (troppo ambizioso forse, nda).
Rimanendo sempre nella politica interna, non si può non parlare dei risultati in ambito economico-lavorativo degli ultimi quattro anni. Prima della pandemia, il governo Trump aveva fatto registrare dei buoni dati inerenti alla ripresa economica del Paese e sulla disoccupazione.
A conclusione dell’ultimo mandato di Obama, gli USA avevano fatto registrare una percentuale di disoccupazione del 4,3%. Nel settembre 2019 questo tasso si era attestato sul 3,5%, rappresentando il dato più basso degli ultimi cinquanta anni. Ora però, l’arrivo del Coronavirus e la pessima gestione della pandemia e delle sue conseguenze socio-economiche e sanitarie devono rappresentare per la nuova amministrazione un obbligo, un punto fondamentale per rilanciare un’economia in gravissimo affanno in questo momento storico.
Anche la crescita economica americana rappresenta un punto importante nel lavoro di Trump e del suo governo. Il settore, infatti, ha conosciuto un aumento con picco massimo, prima della diffusione del virus, intorno al 2,9% per poi calare con l’arrivo del Coronavirus.
Questo incremento economico ha però comportato un aumento della crescita del deficit pubblico, tema che attanaglia ormai da tempo la politica americana.
L’ambito nel quale gli Stati Uniti a guida Trump hanno avuto un atteggiamento per così dire poco chiaro è quello in politica internazionale.
In un Mondo che si sta lanciando in maniera sempre più convinta verso la collaborazione in materia ambientale per salvaguardare il clima e il delicatissimo equilibrio dei nostri ecosistemi, Trump ha deciso di seguire una strada opposta. Gli Stati Uniti hanno deciso di uscire dagli Accordi di Parigi del 2017 e hanno rallentato tutte le decisioni in seno alle Nazioni Unite in materia di transizione ecologica. Questo ha portato, in ambito nazionale, all’abolizione del “Clean Power Plan” (voluto invece da Obama) che imponeva di limitare le immissioni di CO2, ad un utilizzo maggiore di fonti fossili e alla ripresa delle trivellazioni nel territorio dell’Alaska.
Facile e superficiale, almeno in apparenza, dire che Biden porterà gli USA a seguire ben altra strada. Perché, se da un lato, seguire una strategia totalmente opposta è fondamentale per la difesa della Terra dall’altra, è innegabile che gli Stati Uniti abbiano bisogno di un motore economico costantemente acceso e funzionante soprattutto rispetto alla crescente Cina.
Scelta ancora più complicata, per il neo presidente eletto, sarà quella inerente al Medio Oriente.
Trump è stato in grado di sorprendere tutti in più occasioni. La prima quando decise di cancellare l’accordo con l’Iran sul nucleare e, la seconda, quando riconobbe Gerusalemme come capitale di Israele. Queste decisioni hanno avuto l’obiettivo di isolare Teheran e poter includere, in seguito, l’Arabia Saudita in un meccanismo particolare e complicato di alleanze. Difficile capire se e quanto a Biden e alla sua amministrazione convenga continuare su questa strada o scegliere un’opzione completamente diversa.
Insomma, cercando di tirare le somme di questo ragionamento, quella che aspetta Joe Biden è un compito molto ma molto difficile. Dal 20 gennaio 2021 inizierà un viaggio in cui scopriremo cosa e se gli USA hanno imparato dall’amministrazione uscente così osteggiata da molti nelle piazze e sui social ma capace di raccogliere un numero di voti tale da rendere incerte le elezioni come non le vedevamo negli States dai tempi dello scontro politico tra George W. Bush e Al Gore nel lontano 2000.
E in più, alla luce della campagna elettorale fatta dal candidato democratico, sarà interessante comprendere quanto sarà presente e influente la presenza dietro le quinte di Barack Obama che, indiscutibilmente, ha contribuito, e non poco, nell’esito finale delle elezioni.
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