
A distanza di quasi due mesi dal colpo di Stato con il quale una giunta militare ha preso il potere in Myanmar (l’ex Birmania), la popolazione continua a reclamare il rispetto del risultato delle elezioni dello scorso novembre e il rilascio degli esponenti del partito National League for Democracy che sono stati arrestati, compresa la leader Aung San Suu Kyi. L’accusa iniziale riguardava presunte irregolarità alle ultime elezioni, ma ora Suu Kyi è imputata per importazione illegale di tecnologie di comunicazione, mancato rispetto di protocolli anti-covid e corruzione. In base ai dati riportati dalle agenzie stampa, dall’inizio delle proteste il bilancio dei manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza ha superato quota 250, ma probabilmente il numero reale dei morti è più alto. Ieri è stata uccisa anche una bambina di 7 anni, divenuta la più giovane vittima dall’inizio degli scontri. Quanto agli arresti, si parla di circa 3000 persone, tra i quali figurerebbero anche 40 giornalisti.
Sebbene originariamente il golpe sia stato motivato da presunti brogli elettorali, la reale causa della presa del potere da parte dei militari risiede nel timore di vedere diminuire il proprio peso nel Paese e nelle relazioni internazionali costruite nel corso del tempo. Secondo Zachary Abuza, docente al National War College di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico, il colpo di Stato “era prevedibile perché l'esercito aveva la legittima preoccupazione che con l'83% dei voti, la Suu Kyi potesse spingere per emendamenti costituzionali che li avrebbero indeboliti. Con una forza elettorale così schiacciante, infatti, la leader del Nld, al contrario del primo mandato, dove sostanzialmente non ha fatto nulla per provare a cambiare la situazione, avrebbe anche potuto non fare dei compromessi con loro”. Nonostante in Occidente si sia spesso parlato del Myanmar come di un Paese divenuto democratico dopo cinque decenni di dittatura militare, il potere dei militari non è mai stato del tutto scalfito. Come spiega l’esperto, infatti, “l'esercito ha sempre mantenuto un potere incredibile. Basti pensare che il 25% del parlamento è riservato a loro indipendentemente dall'esito delle elezioni e controllano anche il ministero degli Interni, quello della Difesa e quello per gli Affari di confine, oltre a gestire vaste fasce di risorse naturali, che anche grazie alla guerra costante nelle zone etniche, gli garantisce privilegi unici”. Da qui l’operazione che ha voluto porre fine al processo verso la democratizzazione iniziato più di un decennio fa.
Ad ogni modo, i molti interessi in gioco lasciano pensare che difficilmente la situazione potrà restare a lungo così instabile. Il Myanmar, Paese centrale per gli equilibri del Sud-Est Asiatico, gode di una posizione geografica che lo rende un territorio fondamentale per la gestione e il controllo delle principali rotte marittime dell’Oceano Indiano.
Lo sa in primis per la confinante Cina, che potrebbe avere bisogno di aggirare lo stretto di Malacca (controllato dagli USA) per garantirsi l’approvvigionamento energetico in caso di blocco dello stesso stretto. Proprio il fattore energetico ha convinto Pechino della necessità di fare importanti investimenti nel Myanmar: qui sono sorti un oleodotto e un gasdotto che collegano i due Paesi; l’ex Birmania, ricca di materie prime, è molto importante anche per lo sviluppo delle regioni cinesi più arretrate. A Xi Jinping poco importa se a governare in Myanmar sia la giunta militare o il partito di Aung San Suu Kyi. Come ha riferito Padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia news, per la Cina ciò che conta è la tutela dei propri interessi e, per questo motivo, la Cina dialoga con i militari esattamente come faceva con Suu Kyi e per questo non ha in alcun modo condannato il colpo di Stato. Lo testimonia anche il veto posto sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che condannava il golpe in Myanmar, definito una questione interna al Paese.
Particolarmente interessata alla stabilità del Myanmar è anche l’India, rivale regionale della Cina e, di conseguenza, intenzionata a evitare che il Paese di Suu Kyi scivoli nell’orbita cinese. Proprio al fine di monitorare e limitare la proiezione della Cina nell’Oceano Indiano, di recente Nuova Delhi ha installato un comando congiunto nelle isole Andamane e Nicobare (estremità occidentale dello stretto di Malacca), una piccola ma strategica area che l’India ritiene di propria influenza.
Anche gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse affinché il Myanmar non cada nelle mani cinesi: se la Cina riuscisse ad alterare gli equilibri marittimi nel Sud-Est asiatico, potrebbe contendere a Washington il controllo di importanti rotte marittime. Biden ha immediatamente condannato il colpo di Stato dei militari e, inoltre, ha anche sottoposto a sanzioni economiche i vertici della giunta militare. Sulla stessa linea l’Unione europea: due giorni fa Josep Borrell, l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha dichiarato che 11 persone “coinvolte nel colpo di Stato e nella repressione dei manifestanti” saranno sottoposte a sanzioni.
La priorità degli attori maggiormente interessati al Myanmar, insomma, è ottenere la stabilità dell’area al fine di continuare a perseguire i rispettivi interessi di natura economica e politica, tanto nel caso in cui i manifestanti e le pressioni occidentali riportino il National League for Democracy alla guida del Paese, quanto nel caso in cui i militari riescano a superare definitivamente le resistenze della popolazione civile.
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