
Una delle aree considerate maggiormente fragili dal punto di vista epidemiologico, a causa delle gravi lacune sanitarie, è proprio il continente africano. Tuttavia, in questo mare magnum che è la pandemia da Covid-19, l’Africa sembra trovarsi fuori dal radar degli indici di contagio, non destando particolare interesse o preoccupazione.
I dati (dicembre 2020) ci forniscono un quadro della situazione piuttosto contenuto. Lì l’epidemia procede infatti lentamente, con un calo dei nuovi casi in alcuni Paesi e colpendo, in particolare, solo otto Stati (Sud Africa, Egitto, Marocco, Etiopia, Nigeria, Algeria, Ghana e Kenya), che collettivamente rappresentano più dell’85% di tutti i casi confermati (2.436.963). Le cifre attuali in Africa (che comprende circa il 17% della popolazione mondiale), rappresentano il 4,1% dei casi confermati di Covid-19 e il 2,6% dei decessi segnalati in tutto il mondo.
Ad oggi, sono 58.000 le persone che hanno perso la vita per il Covid-19 nel continente africano: è un numero sicuramente alto in assoluto, ma molto contenuto se si pensa che stiamo parlando dell’intera area geografica ospitante 1.2 mld di persone. Mettendo in relazione lo scenario africano con quello, per esempio, dell’Italia, in cui si è arrivati a toccare la preoccupante cifra di 70.000 morti, un quesito fondamentale sorge spontaneo: come è possibile un numero così limitato di contagi in un continente vasto e al tempo stesso vulnerabile come quello africano?
Per rispondere in modo esaustivo a tale quesito, ci avvaliamo delle conoscenze del professor Roberto Cauda, ordinario di Malattie Infettive presso l’Università del Sacro Cuore, sede di Roma. Dopo un’attenta analisi del fenomeno, il professor Cauda propone tre motivazioni per le quali il continente africano si presenterebbe più refrattario al virus Covid-19.
Il primo motivo riguarderebbe la grande quantità di giovani asintomatici presenti sul territorio. Non solo perché l’età media africana (19,4 anni) è molto bassa e pertanto più resistente al contagio, ma anche per la scarsa quantità di dati che vengono forniti, molto spesso imprecisi.
La seconda motivazione, prosegue il professore, sarebbe da attribuire all’ “esperienza” che l’Africa possiede in merito alle pandemie e alle malattie infettive. La recente diffusione del virus Ebola nel dicembre del 2013 ha infatti costretto le strutture mediche africane ad attrezzarsi e a sviluppare un metodo di contrasto necessariamente più efficace. Non solo, ma la vaccinazione BCG per alcune malattie come la tubercolosi (ancora presente in Africa) sembrerebbe aver rinforzato le difese immunitarie della popolazione rendendola più protetta dal virus Covid-19.
In ultima analisi, una spiegazione al fenomeno potrebbe essere ricondotta al sistema abitativo africano e al grado di urbanizzazione del territorio. Il professor Cauda spiega infatti che i grandi spazi aperti, all’interno dei quali vive la maggior parte della popolazione, favorirebbero una minore diffusione del virus. Cosa che accade invece all’interno di ambienti chiusi, dove è più facile il verificarsi di assembramenti e quindi di possibili contagi.
Lo scorso aprile, le Nazioni Unite spiegarono che se il Covid-19 avesse raggiunto l'Africa, avrebbe potuto uccidere da 300.000 a 3,3 milioni di persone. A maggio 2020, prendendo atto del numero estremamente basso dei contagi, l'OMS rivide quella previsione al ribasso, ipotizzando un massimo di 190.000 morti.
Il contesto appena descritto non tiene probabilmente conto di una riflessione finale quanto mai necessaria. Nonostante il tasso relativamente basso delle morti per Covid in Africa, ciò che dovrebbe destare maggior preoccupazione è il sovraccarico dei sistemi sanitari che riguardano le altre malattie epidemiche come HIV, malaria e tubercolosi. La mancanza di cure adeguate e di prevenzione per queste infezioni potrebbe infatti avere effetti devastanti nei prossimi anni. Una persona impossibilitata ad accedere alle cure antiretrovirali a causa della pandemia attuale potrebbe andare incontro alla morte nel giro di poco tempo. Ne è un esempio lampante la diffusione del virus Ebola avvenuta qualche anno prima. Nel 2014, infatti, ai circa 12.000 morti di Ebola si sommarono i 10.500 decessi a causa di altre malattie infettive, avvenuti qualche mese dopo la fine della pandemia e dovuti alla mancanza di medicinali.
In conclusione, forti di una precedente esperienza, occorre scongiurare una situazione analoga al periodo post-ebola e garantire un adeguato proseguimento delle cure anche per le persone affette da malattie infettive diverse dal Covid. Per ottenere ciò è fondamentale una sempre più precisa analisi dei dati assieme ad un sistema sanitario adeguatamente supportato e che sia in grado di garantire le cure per la maggior parte dei malati.
Infine, preoccupa la recente variante di Covid registrata in Sudafrica (23/12/2020). Come riporta il Guardian, la nuova variante individuata si sarebbe rivelata presto più contagiosa, diventando dominante in diverse aree del Paese. Questa è l’ennesima dimostrazione di come la delicata situazione sanitaria africana debba necessariamente essere controllata in maniera costante.
Fonti:
Commenti