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Accordi Abramo: storica visita in Israele del Ministro degli Esteri del Bahrein

Immagine del redattore: Valerio ManzoValerio Manzo


Gli Accordi siglati due mesi fa alla Casa Bianca iniziano a produrre effetti concreti.

Come riportato da ANSAmed, lo scorso 18 novembre all’aeroporto di Tel Aviv è atterrato il volo con a bordo il Ministro degli Esteri del Bahrein, Abdullatif al-Zayani, in occasione della prima visita ufficiale in Israele di una delegazione proveniente da Manama.

Ad accoglierlo in pista c’era il Ministro degli Esteri del governo israeliano, Gaby Ashkenazi, che ha parlato dell’evento come "una visita storica ed emozionante", diretta conseguenza degli Accordi Abramo firmati ufficialmente il 15 settembre alla presenza di Donald Trump, sebbene la normalizzazione dei rapporti fra Israele e i Paesi del Golfo fosse già nell’aria da diversi mesi.


L’apertura di ambasciate, l’emissione di visti e la previsione di voli diretti fra i due Paesi sono stati gli argomenti al centro dei plurimi vertici ai quali ha preso parte Al-Zayani durante il suo soggiorno israeliano. Il Ministro, infatti, non si è intrattenuto solo con il suo omologo Ashkenazi, ma anche con il Premier Benyamin Netanyahu e con il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, la cui presenza per l’occasione testimonia in maniera lampante l’importanza della regia americana ai fini della conclusione degli Accordi in questione.

Tuttavia, sebbene a margine degli incontri lo stesso Pompeo abbia voluto sottolineare le "meravigliose opportunità per il commercio e lo sviluppo economico" determinate dalla normalizzazione delle relazioni tra Israele e i Paesi arabo-islamici firmatari, la reale portata degli Accordi Abramo va ben oltre gli effetti meramente economici e diplomatici che essi sono pur destinati a produrre.


La vera natura degli Accordi, infatti, è certamente quella anti-iraniana, come inequivocabilmente dimostra la recente uccisione di Mohsen Fakhrizadeh, il fisico considerato il capo del programma nucleare di Teheran. Non appare ascrivibile al caso la tempistica del nuovo attacco contro l’Iran, se si considera come questo sia avvenuto dopo l’esito delle elezioni americane e durante l’ultimo tour mediorientale di Mike Pompeo, probabilmente conclusosi in Arabia Saudita lo scorso 22 novembre con un vertice segreto insieme a Netanyahu, Yossi Cohen (capo del Mossad) e Mohammed bin Salman (erede al trono saudita), sebbene su tale incontro non siano arrivate conferme ufficiali né da parte israeliana né da Riad e, tanto meno, da Washington. Si tratta, infatti, dei colpi di coda dell'amministrazione Trump in politica estera: ridisegnare l'assetto geopolitico mediorientale e assestare un colpo tanto duro all'Iran sono mosse atte ad ostacolare le intenzioni (esplicitamente dichiarate) del Presidente eletto, Joe Biden, in merito alla distensione dei rapporti con Teheran.

Israele e i Paesi del Golfo, del resto, condividono con Trump la necessità di limitare l’espansione dell’Iran nella regione mediorientale: la Repubblica Islamica è considerata da tutte le parti firmatarie la maggiore minaccia alla sicurezza collettiva a causa del sostegno prestato a gruppi paramilitari impegnati in vari territori della regione (come Siria, Iraq e Libano) e, ancora di più, del suo presunto (e probabilmente reale) programma nucleare. Su quest’ultimo punto, un’importante novità è arrivata proprio nel giorno della visita del ministro bahreinita in Israele: infatti, secondo un rapporto segreto realizzato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), del quale è entrato in possesso Reuters, il governo iraniano avrebbe riattivato le centrifughe per l’arricchimento di uranio collocate presso il sito sotterraneo di Natanz. Si tratta di un sito già finito nel mirino dell’occhio attento della stessa IAEA solo una settimana fa, a causa del caricamento di esafluoruro di uranio nelle centrifughe IR-2m per l'arricchimento dell'uranio lì installate.


La comune consapevolezza della pericolosità della minaccia iraniana sembrerebbe far emergere in Medio Oriente due schieramenti. Da una parte i protagonisti degli Accordi Abramo, intendendo qui non solo quegli Stati già firmatari degli Accordi stessi, ma anche quelli che ad essi hanno tacitamente aderito (Arabia Saudita) e quelli che ad essi si preparano ad aderire in via ufficiale (Giordania e Oman, per citarne alcuni). Dall’altra parte, invece, sta prendendo forma un fronte che vede insieme attori islamici sunniti (Turchia e Qatar) e l’Iran sciita, ai quali si aggiunge una Russia fortemente determinata ad aumentare la propria influenza nella regione mediorientale cercando di riempire il vuoto lasciato dalla “ritirata” statunitense, conseguenza della scelta trumpiana di disimpegnare gli USA dagli scenari di crisi.

I due schieramenti di cui sopra, d'altronde, sono coinvolti in una dura guerra civile che interessa l'intero mondo sunnita e che si palesa anche in altri contesti. Basti pensare alla Libia, divenuta da quasi un decennio teatro di una vera e propria proxy war che vede la questione religiosa mescolarsi ad interessi di natura strategica e geopolitica, da cui sono animati Paesi come Russia, Francia e Italia. Sinteticamente, in Libia accade che, mentre il Governo di Accordo Nazionale (l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale) riceve un serio sostegno militare, economico e politico dalla Turchia, il generale Haftar gode di un aiuto analogo ed altrettanto concreto da parte di Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita.


In definitiva, il conflitto interno al mondo sunnita è percepito dagli attori coinvolti in maniera talmente grave da essere in grado di produrre un importante avvicinamento ed una possibile alleanza strategica tra la Turchia e una potenza sciita quale l’Iran, come lascia immaginare un incontro trilaterale tenutosi a Istanbul lo scorso 22 settembre alla presenza di Mevlut Cavusoglu, Mohammad Javad Zarif e Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, rispettivamente i Ministri degli Esteri di Turchia, Iran e Qatar.

Alla luce della normalizzazione delle relazioni tra i Paesi aderenti agli Accordi Abramo, infatti, gli Stati guidati da Erdoğan e da Ali Khamenei hanno già detto di essere pronti a farsi carico della risoluzione della questione palestinese, a sostegno di un popolo che si sente tradito da quei Paesi sunniti che sembrano aver abbandonato la causa per la quale si erano invece lungamente e duramente battuti proprio contro Israele, loro nuovo alleato.

 

Fonti:


 
 
 

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