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Ius soli e ius sanguinis


L’Italia, come purtroppo ci ha abituato da diversi anni a questa parte, non riesce ad essere a passo con i tempi nel rapporto tra legislazione e fenomeni sociali che caratterizzano le dinamiche interne tra i suoi cittadini.


Un ulteriore banco di prova di questa inadeguatezza deriva dal lungo, seppur non semplice, confronto sulle modalità di concessione della cittadinanza italiana. È giusto rimanere con lo ius sanguinis o serve garantire maggiore protezione e inclusione sociale aprendosi (e in che modo) al modello dello ius soli?


Per quanto ognuno di noi possa esser spinto verso un orientamento piuttosto che un altro in base a sue convinzioni sociali, politiche o semplicemente e più oggettivamente in base ad un percorso di studi universitario, non è intenzione della seguente trattazione esprimere un giudizio e veicolare le idee in una certa direzione. La vera ragione dietro questo articolo è cercare di fornire, nel modo più oggettivo possibile e nei nostri limiti, gli strumenti adeguati ad analizzare un fenomeno che dovrà essere giuridicamente rinnovato e discusso nelle sedi politiche opportune.


Già, perché il primo elemento fondamentale riguarda proprio l’aggiornamento della legge che disciplina il fenomeno. Quando si parla di cittadinanza nei confronti degli stranieri, l’Italia fa riferimento ad un testo legislativo conosciuto come legge 91/1992. Nello specifico, questa indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori.


Come avviene per ogni legge, questo testo segue inevitabilmente le conseguenze e le caratteristiche di fenomeni e avvenimenti storico-sociali o politico-economici del periodo al quale fa riferimento. Gli anni Novanta del secolo scorso sono stati caratterizzati da ondate migratorie importanti per il nostro Paese, provenienti soprattutto dai Balcani (in particolare dalla vicina Albania) e dal Nord Africa (Marocco su tutti). Pertanto, il succitato testo è una prima risposta del nostro sistema politico a questi avvenimenti.


Successivamente, l’evoluzione degli eventi ha portato il Parlamento italiano ad eseguire una rinnovazione della disciplina. Il provvedimento varato dal Consiglio dei Ministri, in data 4 agosto 2006, ha introdotto una nuova ipotesi di ius soli proprio con la previsione dell'acquisto della cittadinanza italiana da parte di chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia residente legalmente in Italia senza interruzioni da cinque anni al momento della nascita.


Da quest’ultimo provvedimento, però, sono trascorsi ben 15 anni e se il fattore tempo non rappresenta per forza di cose un obbligo di revisione, ciò che spinge ad un nuovo intervento innovatore è proprio la continua e incessante trasformazione del fenomeno migratorio che, oltre a portare un numero maggiore di persone nei confini italiani, vede anche un quadro europeo variato e non sempre applicato nel quale la mutua assistenza e collaborazione tra i Paesi membri è un valore spesso dimenticato.


Nel 2015, il ddl 2092 è stato approvato ed oggi è fermo in Senato. La legge, in discussione al Senato nel 2017, introduce due nuovi diritti soggetti al rispetto di certe condizioni. Prima di tutto, lo ius soli temperato, in base al quale un figlio di stranieri può ottenere il diritto alla cittadinanza se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia con diritto di soggiorno illimitato o permesso di soggiorno dell’UE; in secondo luogo, lo ius culturae con il quale si può chiedere la cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano superato almeno un ciclo scolastico. Per quanto riguarda i genitori, il diritto di soggiorno permanente è riconosciuto a chi abbia soggiornato legalmente in via continuativa per 5 anni in Italia.


Perché è così importante rinnovare tale materia e riportare a galla questo progetto legislativo apparentemente dimenticato e, dato il momento storico, passato in secondo piano.


Non è una cosa che ci chiede l’Europa. Non è un obbligo legale proveniente da chissà quale ente sovranazionale. Il tutto nasce per l’interesse della comunità all’interno della quale è insito ognuno di noi, sia come cittadino che come soggetto privato.


Risolvere e comprendere tale questione merita un lavoro specifico da parte dei nostri politici. Non possiamo sempre accettare in qualità di Italiani discorsi che aprono a comparazioni e confronti con gli altri Stati. È tempo di non essere superficiali; gli incipit di frasi e pensieri che recitano “in Germania, Francia o Inghilterra non fanno così” o “seguiamo il modello tedesco o quello francese” non sono le risposte che ci servono. Da Paese indipendente, autonomo e dotato di una sua sovranità, bisogna essere capaci di studiare oggettivamente i fenomeni sociali e costruire un modello tutto italiano che possa garantire elementi fondamentali come l’integrazione, la convivenza e l’armonia per il benessere dell’intera popolazione.


L’Italia, volenti o nolenti, ha una storia, un passato e una geografia che rendono il nostro Paese unico nel suo genere come tutti gli altri. Chiediamoci, quindi, cosa è utile per noi, cosa è giusto per chi vive nei nostri confini.


Infatti, come affermato da una certa letteratura accademica, si è o si diventa cittadini di uno Stato in base al valore che in una data esperienza culturale acquista il fatto di discendere da cives o di essere nella civitas. La nostra Costituzione contiene pochi richiami alla cittadinanza, ma riporta numerosi e forti richiami ad un approccio statale e sociale inclusivo (vedesi le disposizioni che parlano di inclusione sociale, democratica e legislativa).


Nello specifico, il mutamento di parametri che vanno ben oltre la nostra società e che disegnano un mondo senza confini e globalizzato con Stati sempre meno nazionali anche grazie alla presenza dell’Unione Europea ha portato un cambiamento profondo nel modo di vedere e concepire il legame statualità-cittadino.


Come rispondere a questi mutamenti? Come riuscire a farsi trovare pronti?


Chi scrive non ha una formula per queste ingombranti ma fondamentali domande, però è necessario affrontare questa sfida legislativa-nazionale in modo oggettivo e intellettualmente onesto. Voler mantenere il vecchio impianto normativo o voler assecondare il cambiamento è una scelta da non prendere alla leggera, da non assecondare propagandando solo principi e aizzando bandiere. Si faccia una riflessione seria, attenta e accurata. Si veda ciò che si perde e ciò che se ne guadagna. Bisogna capire che, disponendo delle vite altrui in modo indiretto, si hanno delle enormi responsabilità che mettono in gioco la stabilità di un intero Paese, al di là delle stagioni politiche che quest’ultimo può vivere. Perché ciò che rimane per sempre nel DNA di uno Stato sono i principi fondamentali che illuminano il percorso nazionale anche e soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà.

 

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